In assenza di occhi umani, la catasta di uccelli precipitati sul ghiaccio non suscita nessuno stupore
Inizia così, avvolto nel mistero, l’ultimo libro di Paolo Di Paolo, Romanzo senza umani (qui puoi leggere la nostra intervista all'autore): sembra l’incipit di un romanzo distopico, come distopica è l’immagine di Torrington Square trasformata in barriera corallina, evocata da Virginia Woolf in esergo.
Ma la distopia è già avvenuta, e riguarda il passato: il congelamento del Lago di Costanza durato sei mesi, dal 1572 al 1573. Intorno a questo lago, e al suo portato simbolico, prendono le mosse due narrazioni, a prima vista opposte, non solo perché ambientate in secoli diversi, ma perché raccontate con una lingua sorprendentemente mutevole a seconda che a “parlare” sia il paesaggio senza umani che apre il libro o l’umano troppo umano Mauro Barbi che a quel lago ha dedicato anni di studio, trascurando, a quanto pare, gli umani che gli stavano intorno: «E smettila, Mauro, ti prego, smettila. Tu e quel lago ghiacciato del cazzo!».
Più o meno tutti, come Barbi – il protagonista – siamo riusciti a deludere un vecchio amico, a tiranneggiare qualcuno ingiustamente. Più o meno tutti, come lui, non siamo stati all’altezza di una storia d’amore, né abbastanza riconoscenti con chi lo meritava. Ci siamo fatti dimenticare. O peggio, ricordare nel modo sbagliato. Può esserci una seconda occasione?
Alla freddezza che gli amici, gli ex compagni di classe, le fidanzate, le amanti gli continuano a rinfacciare, Mauro — come in un film di Nanni Moretti, non a caso citato sul finale — cerca di rimediare rispondendo a e-mail con quindici anni di ritardo, telefonando, o semplicemente ristabilendo un dialogo, il più delle volte immaginario, con quella che definisce gente della sua vita: «Scusa, come va, grazie, volevo solo sentirti, com’è che ci siamo persi?».
Vale per Mauro quello che scrive Natalia Ginzburg nelle Piccole Virtù: «al centro della nostra vita sta il problema dei nostri rapporti umani»; e del resto per chi non è così? Il fuoco del suo mondo interiore non riesce a scongelare i gesti, le parole. A tormentarlo è l’immagine che gli altri si sono fatti di lui, i ricordi che gli altri hanno di lui, o peggio ancora i ricordi che non hanno di lui — come Luca Sérgola, lo studente a cui Barbi ha fatto il supplente di Storia, e che si è completamente dimenticato di lui —; come porre rimedio a questa asimmetria dello sguardo? all’oblio a cui ci condannano gli altri?
E mentre Mauro Barbi si interroga su come gli altri ci vedono, in assenza di occhi umani che cosa accade?
Il vento insiste, squarcia lo strato basso di nubi e fa piovere quel poco di luce che ricolora di azzurro la superficie ghiacciata del lago. I cumuli di neve fresca brillano come piccole colline di sale. Li sovrastano cime più elevate, montagne dalle pareti scabre. Gli speroni traslucidi, trapassati da una nebbia che fluttua, sono le fantasiose articolazioni di un paesaggio scolpito dall’acqua gelata. Sculture massicce ma destinate a scomporsi e ricomporsi, a fondere, a slittare, a franare.
Una prosa elegante e dal sapore antico — nutrita dalla lettura di fonti e saggi, come Di Paolo ci tiene a svelare nella “Nota dell’autore”, creando suggestivi echi intertestuali — ci conduce dentro il paesaggio senza umani (dando vita a quello che poi diventa un vero e proprio metaromanzo), mentre la storia, tutta al presente, della nevrosi esistenziale del protagonista e i suoi tentativi tragicomici di fare pace con il proprio passato — lui che di mestiere fa lo storico! — si traducono in una prosa immediata, punteggiata da dialoghi (alcuni dei quali esilaranti), in cui prevale un registro più colloquiale; una prosa apparentemente semplice, eppure abilmente disseminata di rimandi letterari, con cui Di Paolo si diverte a giocare (Ciao Proust!) e insieme evocare, creando associazioni e sovrapposizioni:
Landquart, Landquart! Me lo ripeto come un nome familiare, risalendo in macchina, mi ricorda qualcosa: e sì, dev’essere un luogo citato da Thomas Mann all’inizio della Montagna incantata
(Che siano queste citazioni segnali luminosi con cui i lettori possono riconoscersi, e provare a smentire Martin Amis quando sostiene che i lettori deduttivi sono morti?)
L’immagine di Hans Castorp accompagna Mauro nel viaggio che sta per intraprendere, un viaggio esistenziale, a tappe, in cui ovviamente è prevista una sosta al lago di Costanza:
Fa ridere che io sia qui. Fa piangere che io sia qui.
Fa ridere il sopralluogo dello storico che cerca nel presente le risposte su ciò che è stato. Un archeologo che ha sbagliato indirizzo.
Fa piangere che il lago sia lo stesso lago di quattro secoli e mezzo fa. Ma è un altro lago. Un altro anche rispetto a quindici anni fa: quando lo vidi per la prima volta in compagnia del vecchio Cardolini, meno vecchio.
Ero lo stesso ed ero un altro anche io. Se mi incontrassi vorrei dirmi solo: Stai più attento, Mauro, stai più attento! È l’unica cosa che conta.
Fanno ridere gli anni spesi a capire qualcosa, a ricostruire, cucire, connettere, glossare, ma fanno anche piangere, per la cura quasi ossessiva, la dedizione integrale all’invisibile.
Studiamo soprattutto ciò che non vediamo. Grossi rettili estinti, idee passate per la testa di qualcun altro, la guerra del Peloponneso.
Un lago congelato per sei mesi sul finire del sedicesimo secolo.
È una vera e propria crisi esistenziale quella di Mauro Barbi, a tratti di mezz’età, soprattutto quando si scaglia stizzito contro le nuove generazioni; e il congelamento del lago una grande metafora: «Il clima ci condiziona più di quanto crediamo», commenta lui stesso durante una trasmissione televisiva a cui è stato invitato. «Emotivamente. Culturalmente. Non è, come molti pensano, una questione limitata alle previsioni del tempo…»
Tutto è clima, ci dice Di Paolo, lasciandoci un’ultima domanda su cui meditare:
Perché si è raffreddato tutto?
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