Se non è per gli altri né per me, allora perché scriverlo?
Non è un diario, non è una confessione, né tantomeno un saggio o una storia di finzione. È una testimonianza, un’autobiografia che ricerca la verità oltre il personale racconto di Neige Sinno, oltre il ricordo dei suoi familiari, oltre anche la verità giudiziaria.
Neige Sinno ha atteso venti anni prima di scrivere questo libro. Triste tigre, edito da Neri Pozza, è la storia degli abusi che la scrittrice francese, ora in Messico, ha subito quando era bambina dal suo patrigno, più o meno dai sette ai quattordici anni. Nel 2000 ha deciso di denunciarlo insieme alla madre; lui ha ammesso gli stupri reiterati, è stato nove anni in prigione e ora, fuori dal carcere ha un’altra vita, un’altra famiglia e nuovi figli.
Doveva avere sette anni, forse nove, non lo ricorda con esattezza Neige quando il suo patrigno ha cominciato ad abusare di lei. A parte il momento esatto in cui tutto ha avuto inizio (il trauma ha alterato per sempre la cronologia dei fatti), i ricordi sono perfettamente incisi nella mente e nel corpo della donna che Neige è diventata.
Nessuna certezza nel contenuto e nella forma di questo libro, Neige Sinno ce lo dice fin da subito: scandaglia e indaga quello che le è successo secondo i limiti propri di una testimonianza soggettiva fatta di rabbia, di mille interrogativi, di sorda fiducia nel futuro. Perché proprio a lei? Ha senso parlarne? E come? L’autrice si mette costantemente alla prova, torna sui suoi passi, afferma e poi ritratta la percezione della sua infanzia, proposta dal punto di vista sia della vittima che del carnefice.
Non prendete questo testo nel suo insieme per una confessione. Qui non c’è nessun diario, nessuna sincerità possibile, nemmeno nessuna bugia. Il mio spazio, quello davvero mio, non è in queste righe, esiste solo dentro.
La voce di una donna forte, coraggiosa, certamente consapevole non è consolatoria, non si crogiola nel dolore e nel pianto, risuona piuttosto sprezzante nei confronti di quella narrazione vittimistica propria dei sopravvissuti. Allo stesso tempo ci dice chiaro e forte che chi è vittima di stupri, soprattutto se nell’età dell’infanzia, lo sarà per sempre, quel passato è presente e futuro, è qui e ora e continuerà a esserlo. La sofferenza più grande deriva dal sapere che la propria vita sarà sempre e indissolubilmente legata a quella dello stupratore: si è il risultato di qualcosa di forzato, di non voluto, di una violenza che oltrepassa la vittima stessa per assecondare il bisogno egoistico dell’abusante.
Non c’è mai un happy end per chi è stato abusato durante l’infanzia. È un errore e una fonte di angoscia credere al mito del sopravvissuto così come ci viene descritto nei film americani.
Neige Sinno racconta per esempio che certi atteggiamenti, paure, modi di parlare o di vestire sono il risultato di una risposta oppositiva o imitativa ai gusti e alle richieste del suo patrigno; da quegli avvenimenti si è profondamente costituita nei modi e nel carattere, che proprio nell’età dell’infanzia trovano una loro importante definizione.
Ma c’è altro oltre questo, di ancora più definitivo e costitutivo dell’essenza umana: aver toccato con mano il male e le tenebre rompe ogni visione d’innocenza. Se a sette anni ancora Neige Sinno non sa dare un nome a tutto ciò, crescendo comprende fino a dove, in profondità questa lacerazione le abbia impedito e sempre le impedirà di guardare al suo presente e al suo futuro con uno sguardo sereno o riappacificato. Non c’è innocenza a cui tornare se non la si è mai conosciuta, non c’è realtà a cui aggrapparsi dopo aver viaggiato nell’abisso della crudeltà e della violenza umana.
Un abuso sessuale su un bambino non è una dura prova, un incidente della vita, è un’umiliazione profonda e sistematica che distrugge le fondamenta stesse dell’essere. Quando si è vittime una volta, si è vittime sempre. E soprattutto si è vittime per sempre. Anche quando se ne viene fuori, in realtà non se ne viene fuori.
Neige Sinno esiste per qualcosa che non ha scelto ma che le è stato fatto. E proprio per questo scrive e riscrive questo memoir non tradizionale, si confessa senza pathos e senza commiserazione, si ribella al suo destino di vittima rivoltando il proprio spazio interiore e le forme canoniche del linguaggio autobiografico.
Triste tigre è infatti, oltretutto, una lucida e potente riflessione sull’importanza del linguaggio e della letteratura, così come della loro controparte, il silenzio. Quel silenzio che le fu imposto da bambina dal suo patrigno, quel silenzio che permise di mantenere il loro segreto ammantato di finto amore, fino a quando Neige non ha compiuto ventitré anni, è stato finalmente rotto grazie alla parola, al confronto, a persone care che ha incontrato nel suo percorso e l’hanno esortata a denunciare, per lei e i suoi fratelli.
Il mio mondo interiore si è forgiato nella consapevolezza di sapermi estranea al mondo, mondo a cui non potevo rivelare chi ero realmente. Quel segreto, e il fatto di sapere che gli sopravvivevo, erano la mia forza.
Da qui, ci dice, il suo amore per la letteratura e per tutto ciò che è finzione e invenzione, perché rappresentano un rifugio nell’immaginario dalla bruttezza della vita attorno e dentro di lei; la scrittura, allo stesso modo, nasce non come terapia d’urto, ma come risposta a quel silenzio e a quell’odio imposto dal patrigno.
In questa ricerca della verità Neige Sinno si scontra con l’impossibilità di trovare una ragione e allo stesso tempo con la difficoltà di parlarne, arrivando a interrogare fotografie, atti giudiziari, articoli di giornale e soprattutto una vasta bibliografia letteraria. L’autrice chiede aiuto a quelli che prima di lei hanno parlato di incesto, di stupro, di abuso, da Nabokov a Virginia Woolf, da Foster Wallace ad Annie Ernaux, per sentirsi meno sola, per non rischiare di perdersi, per trovare conferme della sua voce in quella degli altri.
Sto girando a vuoto? Ho paura di quella che è la mia versione univoca? È come se sentissi che esiste il pericolo di perdermi in questa ricerca di una verità che ho già così tanto cercato e che so essere di natura sfuggente.
Un’intensa esplorazione sul potere ma anche sull’impotenza del linguaggio e della letteratura di fronte a certe tragedie umane. La scioccante confessione di Neige Sinno non comporta vie di fuga, non c’è nessun premio alla fine per essersi comportati da vittime responsabili, per essere riusciti a rifarsi una vita. Al massimo si torna a fare la spesa, anonimi agli altri, nella speranza di avvicinarsi il più possibile all’equilibrio di una vita normale, come quella di chi non ha subito abusi.
La letteratura rappresenta certo una consolazione per tutto ciò, l’accesso a qualcosa di più grande, a un mondo che può far sentire più liberi e superiori alla sofferenza personale, almeno per un momento. Ma non rappresenta la salvezza: chi ha toccato con mano l’altro mondo, trascinatoci dal suo aguzzino, chi sa cosa vuol dire fare del male, se ne porterà gli stralci in ogni sguardo e in ogni gesto, e sarà sempre in grado di riconoscere chi è sceso negli abissi insieme a lui.
Imparare a rimanere sul ciglio di quel mondo, ecco la sfida, camminare come funamboli sul filo dei nostri destini. Inciampare ma, ancora una volta, non cadere. Non cadere. Non cadere.
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