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La rincorsa di Alessandro Tommasi

Tommasi è in treno (come al solito), prova a mascherare la comprensibile fatica con un sorriso ingenuo (come al solito), e pondera ogni frase prima di rispondere (come al solito).

La prima domanda che gli faccio è chi gliel’ha fatta fare, a scrivere un libro che “non è un manuale per start up”, gli dico, e allora cos’è, ma soprattutto, per chi è?

Alessandro si è imbarcato in quest’avventura un po’ istintivamente (come al solito?), perché aveva delle cose, mi racconta, da elaborare. Non ha un rapporto stretto con la letteratura di finzione, è piuttosto un lettore di saggistica, eppure ha sentito il bisogno di fare dell’autofiction per tutta la prima parte de La rincorsa (Feltrinelli).

Allora chi te l’ha fatta fare, incalzo, se non hai velleità di romanziere? L’occasione, certo, una proposta, l’ennesima sfida scomoda a cui si sottopone (come al solito!), ma anche la potenza taumaturgica della scrittura: “ero arrabbiato”, e scrivendo ha fatto ordine, ha processato.

La rincorsa
La rincorsa Di Alessandro Tommasi;

Uno schiaffo, un bambino che ha commesso un errore innocente, la mano pesante di un padre militare severo e aspro, il piazzale di una caserma pieno di gente che osserva… Dopo quasi quarant’anni, quel dolore minimo ha assunto forme inaspettate e impreviste, e si riverbera ancora: da un’infanzia fatta di rigore e difficoltà a un’adolescenza segnata indelebilmente da un sogno infranto, fino a un’età adulta vissuta da protagonista del mondo delle start-up.

Le prime pagine inanellano una dopo l’altra minuscole angherie, cadute, traumi che sono tali per chi li vive e non hanno una pretesa di oggettività. Alessandro se li ricorda tutti e li mette in fila su carta con un necessario, ma sempre pudico, esibizionismo: allora chi te l’ha fatta fare, gli chiedo, a metterti così a nudo? Se avessi io quel tipo di visibilità, avrei paura, dell’incuria con cui ci trattiamo virtualmente, “ma le critiche”, mi dice, “non sono quasi mai rivolte alla mia persona, quindi riesco a gestirle come farei con un problema sul lavoro. Quello che mi scoraggia sono le assunzioni superficiali, i pregiudizi, chi non mi da neanche il beneficio del dubbio”, soprattutto ora che con Nos ha deciso di entrare in politica, aggiungo, che nel nostro paese è motivo di discredito a prescindere.

Resto scettica di fronte alla sua pretesa sicumera, perché quello che colpisce inaspettatamente della sezione autobiografica è il candore di una confessione dolente, per cui hai la percezione di dover trattare quell’oggetto (l’autore-narratore) con cura. Nelle pagine non si lesina mai sui dettagli scomodi, ma sul sentimento della vergogna che attraversa tutto il libro non si indugia mai in maniera morbosa o con postura vittimistica. Si ha la sensazione che per davvero l’inadeguatezza sia pervasiva e alimenti la sindrome dell’impostore: “i complimenti, quelli proprio non riesco a gestirli..”, mi sembra di sentirlo biascicare.

Con l’infanzia e l’adolescenza si attraversa quello che Weber definirebbe il “progressivo disincanto” del mondo: quel momento in cui l’ “avvicinarsi pianissimo” e con grazia alle cose, viene scalzato da uno sguardo troppo duro, dalle incomprensioni, dalla cesura repentina della morte. Quando “svuota le tasche della sua vita” , Alessandro non ci trova i buoni sentimenti: c’è, appunto, la rabbia, per le cose che non hai fatto in tempo a dire, per quelle a cui hai dovuto rinunciare, per un corpo che ti si ribella contro e non ti spieghi perché. Non ti spieghi perché la tua volontà non basta, la ferrea disciplina non basta, l’obbedienza, l’onestà, niente è mai abbastanza. E allora ti arrabbi, e fai scelte impulsive, e sbagli, sbagli tanto.

E intanto quel “male oscuro” che hai sepolto sotto il senso del dovere e una rinuncia gesuitica ai piaceri (la musica, il cibo, l’ozio) è ancora lì e si inerpica e si avvinghia negli occhi di tutte le figure pseudopaterne che Tommasi incontra. Ci sono sempre dei superiori, in questa storia di formazione, di cui cerca approvazione, quel “ce l’hai fatta” che (come al solito) non riesce mai a dirsi da sé. Ma ci sono anche tanti amici fidati, che menziona uno a uno con sincera gratitudine, e altre figure controverse da cui impara sempre qualcosa: ogni colpo, messo da parte, accelera “il timer interno” della sua inquietudine, lo slancio verso l’ennesimo test. “E le donne?”, mi sono chiesta leggendo, chi sono e dove sono in questa tua educazione sentimentale e civica? Ce ne sono, molto diverse tra loro, e in gran parte agiscono come pungoli spietati, come un monito doloroso ad affinarsi ancora di più, come professionista e come uomo. E non importano i soldi (“sono uno spendaccione, non ci bado, mi piace offrire e condividere”), è più una questione di status, ma non di classe, quanto di prestigio: “impressionare, fare un figurone a cena, insomma, era il mantra di Will”. Perché il senso di deprivazione è sempre relativo e intimo, e induce a cercare il riconoscimento anche fugace dell’altro, traducendosi in un allenamento esasperante che dura da sempre ed è per sempre volto al miglioramento di sé.

Ma se può interessarci la storia di Tommasi non è solo per la trasparenza abbagliante delle sue fragilità, ma anche perché a partire dal dato concreto (i concorsi, gli obiettivi, le conversazioni, i colloqui, gli errori) c’è sempre un’elaborazione lucida e un’analisi deduttiva da cui poter trarre insegnamenti inferibili a tanti altri contesti. C’è insomma un procedimento, un metodo, che non è esente da fallibilità e che si nutre proprio di queste, una tensione all’apprendimento anche quando si è al vertice: “mi rendo conto che genero tanto lavoro e sono molto esigente, e devo esserlo anche con me stesso, per questo mi piacciono i KPI e le tabelle Excel: garantiscono onestà e mi consentono di essere un leader più ordinato”.

Così faticosamente Tommasi prova a fare della sua persona un’arma infallibile, votata alla difesa e al compimento di qualcosa di buono, di qualcosa di giusto. Scrive di quello che impara, senza sconti, spesso attanagliato dal dubbio morale: ogni tanto strappa la tela che aveva provato a ricomporre, preso dalla noia e dal terrore di lasciar andare, dal senso di vuoto di quella prima adolescenziale lacerazione che ha lasciato gli strascichi degli attacchi di panico e del presagio della malattia.

Ma quel pendolo interiore è inesorabile, e allora dipinge ancora, disciplinato (come al solito!), con i colori accesi dell’adrenalina. Ogni tanto ascolta il flamenco e il punk rock scandinavo. Quasi mai va a comprarsi dei vestiti nuovi.

 

 

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