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Stranieri a noi stessi di Rachel Aviv

La salute mentale è una terra senza confini. Sembra allungarsi fra la discesa ripida di un precipizio e la scalata di una vetta imprendibile, in ogni caso è una vista senza fine. L’idea – quantomeno – della salute mentale sta in quella landa di mezzo che si estende negli alti e bassi di un cammino dissestato e incredibile. Il memoir di Rachel Aviv, Stranieri a noi stessi (Iperborea), si assesta in quella terra. Lo fa attraverso le parole che definiscono la salute mentale, con le sue asserzioni, come con le sue fragilità, con quella tenacia che caratterizza chi ha sofferto e guarda tramite la lente delle storie per poter davvero capire cosa fa del malessere una condizione presente, cosa la definisca, da cosa nasca.

Stranieri a noi stessi
Stranieri a noi stessi Di Rachel Aviv;

Rachel Aviv ha solo sei anni quando viene ricoverata con una diagnosi di anoressia. Passano poche settimane e Rachel, quasi per caso, ricomincia a mangiare. Ma che cosa sarebbe successo se – come le sue compagne di reparto già adolescenti – anche lei avesse iniziato a pensare a se stessa nei termini della malattia diagnosticata?

Aviv parte dalla sua storia – passata alle cronache come l’anoressica più giovane d’America – a soli 6 anni viene ricoverata perché smette di mangiare e la situazione precipita. Ma questo libro racconta anche altre storie, tutte di persone a cui il malessere mentale ha tracciato nuove coordinate di vita, ha stabilito altri percorsi, ma soprattutto è la cura a essere indagata a fondo, in ciascuna declinazione e angolazione.

Innanzitutto è un percorso in cui si guarda fra gli spifferi della solitudine, delle malinconie, della vita che non si sceglie e mette davanti delle difficoltà che appaiono insondabili, ma in cui si pagano anche le patologie che esistono nella loro limpidezza e a cui – facilmente – viene associata una soluzione farmacologica, scollegata da processi emotivi e psicologici. Qui c’è un primo inghippo, la convinzione che sia un problema dissociato dal sentire, a cui offrire una risoluzione semplicistica, come se per superarlo bastasse dividere in compartimenti nettezze che non si intrecciano tra loro.

Ma un’altra riflessione delicatissima è quella sulla malattia che diventa identità e scavalla la persona. Perché anche un eccesso di diagnosi e tentativi terapeutici, può essere una concausa dell’annullamento dell’io che si ingolfa di nomi, parole specifiche che non fanno che portare alla perdita di quello che si è.

Il tema della malattia mentale è profondamente sentito, soprattutto dopo la pandemia, ne sentiamo parlare costantemente e pare fondamentale per tutti. E forse è così. Ma lo è nella misura diversa, nell’esposizione singolare che ne produce, è una terra di inesattezze, di sguardi personali e grandi linee che vengono tracciate per poter essere messe da parte.

Certamente leggere Aviv, partendo da ciò che scrive di sé, spoglia dal tono compatito, da quella categorizzazione eccessiva che sembra impossessarci tutti. Mi fa pensare che a volte non dare un nome alle cose può anche essere salvifico, se si comincia a scandire il proprio di nome e poi, piano, quello degli altri. Un po’ come in quella tecnica terapeutica che si mette in atto durante un attacco di panico, quella che fa nominare le cose che si hanno attorno, per riprendere concretezza, tangibilità, tornare coi piedi per terra, qualsiasi terra sia quella su cui abbiamo bisogno di poggiarci.

Così, chiudo Stranieri a noi stessi e penso che anche la mia salute mentale è una terra straniera, una di quelle fatte di panorami e piccoli dettagli da conservare, a cui probabilmente mi va bene guardare da angolazioni diverse e scoprire che non c’era niente, che c’era tutto.

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