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Ritratto di un matrimonio di Maggie O'Farrell

Per sopravvivere in questo matrimonio, o addirittura trarne piacere, Lucrezia deve preservare quella parte di sé, tenerla lontana da lui, separata, protetta. La cingerà con un roveto, una palizzata altissima, come il castello di una fiaba; metterà di guardia bestie che mostrano i denti e sfoderano i lunghi artigli. Lui non la conoscerà mai, non la vedrà mai, non la raggiungerà mai, non la invaderà

Il senso del romanzo forse sta tutto nel titolo, Ritratto di un matrimonio, già a suggerire l’alternanza di un resoconto fedele, al fantasioso astrattismo di un tetro dipinto. Maggie O’Farrell prende le poche nozioni raccolte sulla storia di Lucrezia De Medici e, dichiaratamente suggestionata dalla poesia nefasta di Browning, My Last Duchess, le trasforma in qualcosa di complesso e articolato, in una liaison romantica pronta a sfociare in un uxoricidio già annunciato.

Ma andiamo per ordine. 1561, fortezza nei pressi di Bondeno, una giovanissima Lucrezia, già sposa del duca Alfonso II d’Este, preannuncia la propria morte imminente causata dal marito, e forse il primo istinto del lettore, spiazzato e ancora sull’uscio intento a bussare, è quello di non crederle, trattando la giovane duchessa alla stregua di una Cassandra dalle profezie sconclusionate. Ma O’Farrell è brava a riportare l’equilibrio e lo fa nel mondo più antitetico possibile, disordinando. La narrazione prosegue così alternata: da una parte i capitoli sulla fanciullezza di Lucrezia, dall’altra il resoconto di quelli che dovrebbero essere i suoi ultimi, fatidici giorni.

Ritratto di un matrimonio. La duchessa di Ferrara

Lucrezia, moglie di Alfonso d'Este, ha una visione della propria morte per mano del marito. Ma, come una Cassandra cinquecentesca, non viene creduta, neppure da noi lettori. La storia di un matrimonio difficile con un uomo spietato, in un romanzo storico che parla ai giorni nostri con grande potenza.

Una ragazzina esile che cresce invigorendosi fino a ritagliarsi il suo spazio a corte, e una giovane donna che rimpicciolisce fino a quasi scomparire. In mezzo, un matrimonio.

Lucrezia, quinta figlia di Cosimo De Medici ed Eleonora di Toledo, è il classico brutto anatroccolo dai lunghi capelli ramati, il cagnolino a macchie rosse della cucciolata bianca e perfetta. E le metafore animalesche non sono casuali, riempiono il romanzo come gli arazzi dei palazzi cinquecenteschi, svelandoci con maestria la vera natura della giovane medicea.

Lucrezia è inquieta, tiene gli occhi sempre aperti, quasi in cerca di orizzonti lontani, confinata in una corte nella quale fatica a riconoscersi. E quegli orizzonti che insegue, li ritrae poi nei suoi disegni, così fuori dalla norma per una bambina piccola, così ricchi di dettagli. Ma la famiglia non sembra riconoscerle alcuna eccezionalità, ai loro occhi Lucrezia rimane un contorno sfumato, un animo certo irrequieto, però tutto sommato insignificante nella sua conclamata diversità. Una figlia a cui è destinato il ritratto più brutto nascosto in un meandro della galleria dove c’è poca luce, un vestito di nozze troppo largo e un marito di seconda mano, entrambi riciclati dalla sorella morta prematuramente. Ma più si continua a leggere, più Lucrezia si delinea sotto i nostri occhi come un’eroina da prima pagina, una combattente silenziosa che assomiglia più a una tigre tenuta in gabbia, come quella che abita i sotterranei di Palazzo Vecchio e da cui la piccola è perennemente ossessionata.

Si avventò su un pezzo di pane, se lo portò alla bocca, sempre in piedi, e lo strappò con i denti. Era la tigre che divorava il nemico. Si guardò intorno quasi sorridendo. Fra loro c’era una tigre, ma nessuno lo sapeva

All’età di quindici anni, la giovane tigre viene data in sposa al duca Alfonso II d’Este e si sentirà sacrificata dal padre come l’Ifigenia di Agamennone, una delle tante figure che infestano i suoi disegni e alimentano la sua inquietudine. Alfonso, il marito, ha una natura duplice, indulgente e spietato allo stesso tempo, una maschera di contrasti che contribuisce a tenere vivo il mistero della storia. Vuole davvero uccidere la sua giovane sposa? O forse la ama di quell’amore così devoto con cui ogni mattina le bacia le punte dei capelli?

Alfonso ammira sua moglie, le regala una mula bianca, e chiama i migliori pittori di corte per donarle quel ritratto perfetto che la famiglia le ha sempre negato. E qui la magia si ribalta, a differenza di Dorian Gray che rimane giovane lasciando alla sua immagine dipinta la triste condanna di invecchiare, Lucrezia si aggrava di fardelli e ansie, incubi e maldicenze, mentre il suo ritratto fiorisce, pennellata dopo pennellata, fino a diventare un capolavoro.

Il materiale per un romanzo importante c’è tutto, la trama lentamente sgarbugliata da un intreccio teso ad arte anche, ma forse Ritratto di un matrimonio ricorda più una fiaba. C’è la giovane incompresa dai capelli lunghi, il marito ombroso e irraggiungibile, le sorelle cattive, e poi ancora bestie magiche e aiutanti travestiti da umili servitori. E O’Farrell impreziosisce gli elementi con una prosa ricca, manieristica al limite del ridondante, tesa a volte a rafforzare il contorno a discapito del centro, i personaggi.

Nonostante qualche mancanza, la dinamica del matrimonio risucchia il lettore che non sale sul banco dell’imputato per giudicare, ma accompagna in un rispettoso silenzio. Del resto, le cronache matrimoniali difficilmente lasciano impassibili, e continuano a inondare i media di intrattenimento. Si pensi al cinema per esempio, dal recente Storia di un matrimonio, di Noah Baumbach, allo storico Scene da un matrimonio di Bergman o alle infinite battaglie alla Kramer contro Kramer, le dinamiche relazionali condite da dialoghi fitti e silenzi carichi di non detti appassionano con l’immortale meccanismo dell’identificazione. E qui il trucco si ripete, i dialoghi sono certo più scarni, ridimensionati dal contesto lontano e dai ruoli stereotipati, ma l’immedesimazione con una donna costretta in una corte padrona risulta tanto immediata quanto attuale.

Si cresce con Lucrezia, si impara ad apprezzarne i tratti nascosti e più genuini, le si tende la mano, aprendole la gabbia e poi, forse, proprio alla fine si arriva finalmente a crederle.   

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È cresciuta tra il Galles e la Scozia e vive a Londra. Ha esordito con il romanzo After You’d Gone (2000). Il suo terzo romanzo, The Distance Between Us (2004), ha vinto il Somerset Maugham Award, mentre per The Hand That First Held Mine (La mano che teneva la mia, edito in Italia da Guanda nel 2011) le è stato conferito il Costa Book Award for Fiction 2010. Altri titoli: My Lover’s Lover (2002) e The Vanishing Act of Esme Lennox (2006).

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