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Pushed back! Tre inchieste dal Premio Inge Feltrinelli

Se il mondo è un posto sempre più inospitale, voltarsi dall’altra parte non è un’opzione

Il Premio Inge Feltrinelli, di cui abbiamo parlato con articoli e interviste qui su Maremosso, ha raccolto una serie di sguardi che per profondità e originalità è capace di raccontare il nostro mondo fino (e soprattutto) nelle sue pieghe più scomode. L’ha fatto premiando saggi e romanzi – nella categoria Diritti in costruzione a trionfare è stata Wayétu Moore con I draghi, il gigante, le donne –, progetti e, come nel caso di questo libro, inchieste. Uno dei temi più delicati, perché se è vero che la libertà di stampa sta facendo enormi passi indietro, allora è necessario che chi è tanto coraggioso da voler toccare con mano le verità più inquietanti e scomode trovi uno spazio sicuro e vivo dove far sentire la propria voce. Pushed back! è questo spazio.

Pushed back! Guerre, povertà e migrazioni nelle inchieste del Premio Inge Feltrinelli

Le inchieste vincitrici della prima edizione del Premio Inge Feltrinelli, un Premio pensato per sostenere le voci di chi fa inchiesta sui diritti violati, per fare da megafono ai perseguitati, alle voci silenziate, a quell'umanità ferita cui mancano le parole per raccontarsi.

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In Pushed back! ci sono tre inchieste, la vincitrice della categoria Diritti violati e due menzioni di merito. La prima è firmata da Agata Kubis, fotoreporter e attivista polacca che racconta, con sguardo e parole implacabili, il dramma dei migranti al confine con tra Bielorussia e Polonia. La seconda, intitolata La banalità della brutalità: l’assedio di Bucha, raccoglie le testimonianze degli abitanti della cittadina ucraina durante uno degli episodi più scabrosi della guerra russa, e l’hanno scritta Elena Loginova e Yana Korniychuk, entrambe giornaliste investigative. La terza è di Mohamed Tarek, collaboratore della testata Mada Masr, unica voce indipendente egiziana, e racconta del problema abitativo in Egitto.

Queste inchieste rappresentano un trittico ideale che esce dai canoni dell’informazione per andare a fondo. Uno scavo che passa per uno sguardo complessivo sui fenomeni – quindi una contestualizzazione dei grandi eventi, l’immigrazione, l’invasione russa in Ucraina, la crisi abitativa in Egitto – e, soprattutto, uno sguardo chirurgico sulle persone, quelle stesse che nel grande calderone dell’infodumping cui siamo perennemente soggetti si perdono, diventano numeri e volti ammassati. Qui si fa una scelta, impossibile dire tutto di tutti, ma le vite di chi si incontra nel corso dei reportage assurgono a un’epicità tragica, cambiano dimensione, diventano l’uno per l’universale. Ahinoi, un universale «inospitale» e sofferente, tragico appunto, e su cui occorre posare lo sguardo.

Come trovare le parole se le parole non sono libere?

Le parole che i reporter hanno raccolto e trascritto sono quelle relegate ai margini – letteralmente e socialmente. Nell’inchiesta di Kubis, Trilogia del confine, il teatro è il confine tra Bielorussia e Polonia. Nel 2021, il premier bielorusso Lukashenko ha richiamato nel paese migliaia di profughi dal Medio Oriente, convincendoli che da lì avessero facile accesso all’Unione Europea.

L’obiettivo di Lukashenko, e di conseguenza del suo principale sostenitore, la Russia di Putin, era quello di destabilizzare l’Unione europea, costretta a gestire così una vera crisi umanitaria e a mostrare il suo lato peggiore. La polizia polacca, nel pieno delle tensioni con il regime bielorusso, ha subito iniziato a respingere nei boschi confinanti i richiedenti asilo.

Un bosco di confine, una frontiera che si riempie improvvisamente di disperazione e di uomini e donne che tentano di andare oltre o di tornare indietro, ma restano intrappolati in un limbo disastroso. Perciò si ammalano, muoiono di freddo e di stenti, sono seviziati dai militari, hanno paura. «Erano così tanti che anch’io ho cominciato ad avere paura», scrive Kubis, perché gli esseri umani, lì, rischiano di perdere tutto, l’umanità stessa in primis, tolta a colpi di umiliazioni e attese.

L’occupazione russa di Bucha è durata appena 33 giorni, dalla fine di febbraio al 1° aprile del 2022, ma è già diventata simbolo di brutalità

La seconda inchiesta è dedicata a un evento più noto alle cronache, il crimine di guerra che si è consumato nella cittadina di Bucha, in Ucraina, a 25 chilometri da Kiev. Un’inchiesta premiata perché raccoglie le voci di chi ha visto e vissuto un assedio violento e feroce da una posizione scomoda, più scomoda di altre: dal Blocco 17, un palazzone costruito di fronte all’ex vetreria occupata simbolo dell’attività artigianale della città sotto l’Unione Sovietica.

BOGDAN: Urgente. Allontanatevi dalle finestre. Meglio andare nei corridoi.
YANA: Che Dio ci assista. Sto pregando!

Loginova e Korniychuk però rendono l’accaduto con un linguaggio che più aderente al reale è difficile da immaginare: attraverso le chat e i messaggi che si sono scambiati gli inquilini del blocco. Paura per le ripercussioni, per le notti da passare al buio per non diventare bersagli, conte dei morti, dei corpi che non si trovano e un avvertimento: non correte. Qualsiasi cosa succeda, non si deve correre, o i russi sparano.

Nel 2015, le autorità governative hanno trasferito senza preavviso gli abitanti di Tal al-Aqarib, un quartiere informale nel sud del Cairo, in alloggi temporanei a circa 50 chilometri dal centro della città. Oltre 3.200 famiglie sono state spostate, le loro case rase al suolo e al loro posto è stato eretto un progetto di edilizia governativa.

L’ultima inchiesta, la più discosta dal nostro sguardo, racconta l’odissea di chi si è trovato a vivere pigiato negli alloggi progettati dal governo dopo lo sfratto dei residenti nel sottodistretto di Tal al-Aqarib. Fares è uno di quelli che si è trovato le forze armate a circondare il quartiere perché nessuno entrasse: dovevano solo andarsene, prendere i pochi averi e portarli nelle loro nuove case. Case piccole, dove tutto non ci sta, e dove le famiglie vivono con sconosciuti e devono trovare un modo per sopravvivere. La Città del 6 ottobre – così si chiama il distretto nel governatorato di Giza – dista 50 chilometri dal centro del Cairo, e chi come Fares lavorava lì si trova in difficoltà.

Senza più niente, gli sfrattati tentano di far fronte a questa desolazione dove nessuno passa, non c’è anima viva, ma c’è solo la speranza di tornare, un giorno, nella propria casa.

Raccontare storie è un modo di non arrendersi all’esistente, di stringere un impegno con il mondo

Raccontare queste storie è l’unico modo perché queste voci siano ascoltate, o anche solo sentite per la prima volta. La raccolta Pushed back! mette su pagina le vite che stanno al confine dell’umano, dimenticate e trascurate, rovinate dall’incuria e abbandonate, vite che è bene assumano questa dimensione pesante e impegnata, che diventino il modo per inquietare chi ne legge. Per quanto drammatici siano questi racconti, non dimentichiamo che c’è, però, chi ha avuto il coraggio di scriverne: uomini e donne che amano così tanto la verità da andare a scovarla dove nessuno aveva mai guardato. E allora, come scrive Carlo Feltrinelli nella prefazione al volume,

Questa pubblicazione, che raccoglie tre inchieste del Premio Inge Feltrinelli, è allora prima di tutto un atto di gratitudine e di solidarietà verso quelle giornaliste e reporter che non rinunciano ad “andare a vedere” per raccontare quel che noi tutti – società civile, comunità internazionale – abbiamo il dovere di sapere.

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