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Non si fruga nella polvere di William Faulkner

[…] e se la contea di Yoknapatawpha era il posto sbagliato per un negro dove sparare alle spalle a un bianco allora il Quarto Distretto era l’ultimo posto persino nella contea di Yoknapatawpha dove un negro con un po’ di sale in zucca – o qualunque altro straniero di qualunque colore – avrebbe scelto di sparare a qualcuno meno che mai a uno di nome Gowrie alle spalle o guardandolo in faccia

C’è un nero – un negro, a dirla tutta – che si chiama Lucas Beauchamp: il suo padrone l’ha liberato, e per questo si comporta da bianco. Altero, inarrivabile, riottoso. «Riottoso» è un aggettivo che ricorre spesso, per descrivere Lucas. In qualche modo, e in circostanze poco chiare, questo nero uccide un bianco, gli spara davanti a tutta la città, all’emporio di Fraser: spara a Vinson Gowrie, il rampollo di una delle famiglie più in vista e potenti della contea di Yoknapatawpha. Aggiungeteci che siamo nel sud degli Stati Uniti e tanto vi basterà a capire che siamo di fronte a un altro capolavoro di Faulkner.

Non si fruga nella polvere
Non si fruga nella polvere Di William Faulkner;

Lucas Beauchamp ha ucciso un uomo: un bianco, e lui è nero. Finisce in prigione prima che i cittadini lo possano linciare sulla pubblica piazza, ma questo crimine nasconde un mistero, e soltanto un ragazzino di sedici anni sembra volerlo scoprire.

Se avete letto qualcos’altro di Faulkner – a me viene sempre in mente, per questo fatto, Luce d’agosto – sapete quanto la luce giochi un ruolo cruciale nei suoi libri. Ogni cosa è illuminata, viene da pensare, ma di luci cupe, qui, luci crepuscolari oppure estreme: i momenti del dialogo, per esempio, dove la narrazione si sospende per dar voce ai personaggi, sono quelli dell’alba e del tramonto, passaggi, transizioni; i momenti, invece, dove l’azione si compie, dove la tensione è al massimo, sono quelli della notte scura, oppure del mezzogiorno torrido. Una luce terribile – o una sua assenza, altrettanto terribile. La scansione del tempo è tanto fondamentale quanto effimera, perché legata al sole e al suo ciclo, il che rende il romanzo, al di là di un capolavoro di letteratura, una grande prova di espressionismo. Siamo accecati la più parte del tempo: quando vogliamo vedere, perché accadono le cose importanti, la luce, in un modo o nell’altro, non è quella giusta.

Poi, va da sé, c’è la trama. Molto lineare, a dire il vero, il che rende questo Faulkner meno ostico di altri: Lucas Beauchamp uccide Vinson Gowrie e finisce in prigione. Ma riesce a parlare con il protagonista, il sedicenne Charles, che l’ha incontrato per la prima volta durante una battuta di caccia, quando il ragazzino era finito nel torrente ed è andato ad asciugarsi a casa del nero che già aveva qualcosa di strano, perché si comportava come un bianco. Beauchamp dice a Charles che Gowrie non è stato ucciso dalla sua pistola, e gli chiede di andare a controllare. Gli chiede, cioè, di andare a disseppellire un cadavere per provare la sua innocenza prima che sia linciato da tutti gli abitanti del Quarto Distretto. Così Charles – perché a una verità del genere possono credere solo i bambini e i vecchi – chiede al suo amico nero Aleck Sander di aiutarlo, e a questo duo già di per sé claudicante si aggiungono la settantenne signorina Habersham e il grasso cavallo Highboy. Il resto accade di notte, ed è giusto che non sia io a scriverlo qui.

«Dunque non sono ancora venuti a prendere il vecchio Lucas» disse Aleck Sander.
«È questo che pensa anche la tua gente» disse lui.
«E lo penseresti anche tu» disse Aleck Sander. «Sono quelli come Lucas che creano problemi a tutti»

Ogni volta che si legge Faulkner c’è un momento, proprio quando si comincia, che è una sorta di iniziazione. Senti, dentro di te, che stai entrando in un mondo altro e, a tutta prima, incomprensibile. E le vie sono due: o abbandoni, perché non si capisce un’acca, oppure tenti e ritenti. Poi, all’improvviso, se ti lasci andare a quest’iniziazione, come una delle luci di cui sopra, la scrittura di Faulkner diventa chiara: sei dentro la storia, dentro il flusso. Probabilmente esiste una spiegazione molto più precisa e accademica di ciò che vi sto raccontando, ma non la conosco: quindi, per me, è sempre stata – e resta – un’epifania. Quegli aggettivi messi uno in fila all’altro senza virgole nel mezzo, quelle frasi lunghe mezza pagina con quattro soggetti e le parentesi dentro le parentesi, i nomi, i luoghi, le situazioni: diventa chiaro tutto insieme. 

Poi però, leggendo, viene fuori altro – moltissimo, a dire il vero, ma qui mi limito a segnalare questo: tutte le complicazioni che comporta avere intorno un negro che fa il bianco fanno pensare che certe cose, vedi, alla fine portano ad altre cose, ma più brutte, tipo a un omicidio. Quest’uomo che si credeva un bianco alla fine fa la cosa più da bianco che ci sia: uccide un altro uomo. E mette in crisi l’ordine costituito, perché la violenza – a tradimento, per giunta, perché Gowrie è colpito alle spalle – è appannaggio di una razza sola, quella dominante. La questione non è tanto che sia stato commesso un crimine, ma è il disonore che porta con sé.

Si potrebbe controbattere dicendo che un omicidio è un omicidio, e va punito secondo la legge, e questo è sacrosanto, al di là di chi l’ha commesso. Eppure qualcosa non torna, perché la verità non è così semplice – giusto? Quel che non accade, proprio per il fatto che a uccidere è stato Lucas Beauchamp, è cercare la verità. Ci vogliono due bambini e una zitella settantenne per decidere di fare un lavoro così sporco: bisogna frugare nella polvere e nella notte, impiastricciarsi le mani, sudare, riesumare cadaveri, rischiare a propria volta la morte. È quel che richiede la complessità: altrimenti sarebbe facile, perché basterebbe dire che un negro che fingeva di essere un bianco – ridicolo – si è sentito così tanto superiore alla sua razza da ammazzare qualcuno, e allora che male c’è se viene linciato dalla folla e giustiziato senza processo?

[…] era come il fiammifero acceso che non scaccia il buio ma ne mostra soltanto il terrore – un debole lampo e un bagliore che per un attimo svela l’irrevocabile immitigabile negazione della strada deserta della terra buia e deserta

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Conosci l'autore

William Faulkner è stato un autore statunitense, Premio Nobel per la letteratura nel 1949.Tra i suoi romanzi più famosi, ricordiamo L'urlo e il furore (1929), Mentre morivo (1930), Luce d'agosto (1932), Gli invitti (1938) e Assalonne, Assalonne! (1936). Faulkner fu anche uno scrittore prolifico di romanzi brevi: la sua prima raccolta, Queste 13 (1931), comprende alcune delle sue storie più conosciute. Durante gli anni '30, nel tentativo di guadagnare qualche soldo, Faulkner ebbe l'idea di Santuario, un romanzo che oggi verrebbe definito "pulp" (pubblicato per la prima volta nel 1931).Faulkner ricevette il Premio Pulitzer per Una favola, e vinse il National Book Award (postumo) per la sua The collected stories.Faulkner è stato anche un apprezzato autore di romanzi polizieschi.Nei suoi ultimi anni Faulkner si trasferì a Hollywood per lavorare come scenografo (suoi sono i copioni del Grande sonno di Raymond Chandler e di Avere e non avere di Ernest Hemingway, entrambi diretti da Howard Hawks).L'ultima parte della sua vita fu purtroppo segnata da un grave problema di alcolismo. Questo non gli impedì tuttavia di presenziare all'assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura e di pronunciare uno dei discorsi più significativi mai ascoltati in tale occasione. Faulkner decise di devolvere il proprio premio per la costituzione di un fondo che avesse come scopo quello di aiutare ed incoraggiare nuovi talenti letterari.Morì a sessantaquattro anni, il 16 luglio 1962, a Byhalia, Mississippi.

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