Con La nuova me Halle Butler racconta le vicende e soprattutto il sentire di una millennial alle prese con quello che è noto come il passaggio alla vita adulta, il tutto con umorismo dissacrante.
La protagonista del libro, edito da Neri Pozza, è Millie, una ragazza di trent’anni che passa da un lavoro interinale ad un altro: sembra impossibile passare il periodo in cui il lavoro si trasforma in posto fisso. Vorrebbe trovare il lavoro che rispecchi i suoi valori, vorrebbe scrollarsi di dosso le tracce di una routine ancora troppo raffazzonata, che procede per tentativi, senza relazioni stabili.
Dissacrante e selvaggiamente ironico, è una discesa vertiginosa nella mente di una millennial intrappolata nella consapevolezza di una precarietà che non riguarda più il lavoro soltanto. È il racconto di una generazione ostaggio del modello occidentale dei «generatori di profitto», che lottano ogni giorno con una mente troppo piena e un cuore troppo vuoto.
In questo libro Butler è molto brava a immortalare il quotidiano attraverso uno sguardo, quello di Millie, che può sovrapporsi facilmente a quello dei lettori millennials. È uno sguardo disilluso, ma allo stesso tempo arrabbiato, proprio perché la generazione Y rivendica una dimensione lavorativa e quindi sociale più sostenibile. Le riflessioni della protagonista riportano ad un piano delle sensazioni più personali, quelle che si pensa possano essere bizzarre o prive di vero significato se esternate. Lungo tutto il libro anche i suoi pensieri più tristi ci arrivano con umorismo pungente e una buona dose di sarcasmo.
Vorrei pigiare il naso nella tastiera del suo computer e dirle che i miei genitori sono entrambi laureati, che sono stata cresciuta bene, in una casa serena, e che per mia madre, che è professoressa, è un insulto implicare che mi abbia chiamata Madison come la sirena di quella merda di Splash, mentre il mio nome viene dalla mia bis-bisnonna che era una suffragetta, razza di stronza ingrata del cazzo, e in questa fantasticheria non capisco più niente e comincio a piangere dal profondo delle viscere, il che, poi, non è tanto una fantasticheria se pensiamo al livello di divertimento e varietà della mia vita.
La vita adulta a cui Millie aspira, sinonimo di benessere, quella scandita da impegni ben precisi, costellata di persone positive ed ordinata, non si concretizza, se non con progetti astratti. Il più delle volte si sofferma su ricerche online che spaziano da soluzioni domestiche e prodotti per la cura di sé stessi, fino a domande esistenziali ambigue.
Apro una finestra di navigazione in incognito e faccio qualche ricerca, scoprendo che ciò che rende felice la maggior parte delle persone è mantenere i contatti con amici e familiari
Butler ci porta, senza troppi giri di parole, nella realtà lavorativa, normalizzata ormai dal capitalismo come un percorso necessariamente estenuante ed alienante, qua filtrato dallo sguardo di Millie con immagini anche molto divertenti e ricche di dettagli. Viene ritratta la sciatteria quotidiana proprio per restituire quel senso di disgusto che lei prova, immersa in una dimensione dove le sembra che la finzione o l’accettazione di una monotonia disarmante e superficiale siano le uniche opzioni.
Adesso cominciano a parlare di una tizia degli uffici di là, oltre il corridoio; prima lavorava qui e la odiano tutte. A quanto pare le piacciono gli oggetti cromati e non ha amici. Una delle donne spinge un catalogo aperto sul tavolo e dice: «Ma quanto è trash?» È un tavolino cromato che trovo identico al resto degli oggetti in vendita qui dentro.
Tutta la scena è uno stereotipo triste, in cui le aspettative e la presunzione sono appena schermate dall’inconsistente sfoggio di cordialità
Nel corso del libro Butler è capace di delineare molto bene la trasformazione dei momenti di intensa solitudine di Millie in momenti di riflessione e nuove consapevolezze riguardo alle sue relazioni, compresa quella conclusa con il suo ex ragazzo. In questa, come negli altri rapporti, si rispecchia l’insicurezza di Millie e il bisogno di conferma del suo stesso valore da parte dell’altro: forse anche il frutto di crescere in una società che chiede sempre di più, che segue la logica di una competizione sfrenata e un costante confronto non costruttivo.
Mi vergognavo di com’ero e avevo bisogno che qualcuno confermasse che avevo delle buone qualità, che la mia era solo una reazione esagerata o una brutta giornata
Le relazioni presenti, invece, sono amicizie che Millie si sforza di chiamare tali: non c’è ascolto reciproco, la difficoltà di essere trentenni in quel momento non basta ad unire. Durante i suoi momenti di sconforto la protagonista si compiange, si fa pena, si fa persino schifo, ma allo stesso tempo si motiva, si arrabbia con sé stessa e cerca di spronarsi, si rialza e prova a sentirsi più forte. È il suo scontro con il dover crescere al centro di schemi sociali che puntano all’essere impeccabili, in una società che mette al primo posto il profitto ed il successo, affliggendo anche i rapporti interpersonali, disumanizzandoli in qualche modo. Nel libro Butler ci porta ad analizzare quel senso di stranezza e lontananza rispetto agli altri, che è poi, in fin dei conti, un sentire che ci accomuna più di quanto non si pensi.
Non possiamo chiedere aiuto alla gente senza rivelare che siamo diversi da come sembravamo, che abbiamo sempre pensato e provato cose strane, che siamo più brutti, deboli, irritanti, banali e meno interessanti di quello che sembravamo promettere; senza dare a vedere che è facile ferire i nostri sentimenti, e che siamo noiosi, proprio come tutti gli altri
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