La poesia, spesso, per chi la scrive, ha a che fare con la vocazione. Non si sa bene in che modo, con quali sintomi si manifesti, ma a un certo punto arriva. È una sorta di chiamata diversa rispetto a quella della prosa e questo vien fuori sicuramente da ciò che mette sulla pagina Marziano Vicedomini, nella sua raccolta Io, due, nessuno: l’esigenza.
La raccolta poetica di Marziano Vicedomini è l'ascesa dell'uomo alla divinità. Io, Due, Nessuno è una silloge sapida come il mare che bagna la sua partenopea origine, sigillata nel mito della sirena Partenope e del suo amato Vesuvio. Il rimando alla mitologia diventa il substrato sul quale vengono snodati i temi del Vicedomini. Fluiscono in onda le sue vicissitudini, le sue letterarie ed artistiche preferenze, puntando la lente sulla visione che ha di se stesso e dell'umanità tout court.
La raccolta segue due linee ben chiare – il doppio ha la meglio, è una caratteristica connaturata del comporre dell’autore: la prima ha a che fare con una riconnessione con la mitologia, la seconda con la ricerca di quest’identità che sembra in costante moto, costruzione e decostruzione.
Un’evocazione di una musa contemporanea, un’ispirazione antica che cerca le sue radici nell’oggi, in tormenti che non si appaiano con le difficoltà arcane ma rispondono ai dolori moderni.
La ricerca di un io, che cede alla forma del due, che si perde in questo nessuno fremente, una triade che si ricompone nell’unico e invoca l’immagine poetica. Un’immagine che si appaia perfettamente con la terra da cui l’autore stesso proviene, una forza partenopea irruente, che richiama il mare e la sua possibilità di portare tutto a riva, tutto al largo, quanto il fuoco che impera e sorprende all’improvviso: anche la città vibra nel doppio.
Eri tu,
premonizione
di sempre.
Era sterrata,
assolata,
tu quel bambino
perso nel solco.
La voce si fa brevità, versi tranchant, che reggono un ritmo cadenzato, spesso introdotto da quella forma nominale dell’essere che porta con sé un incedere deciso, talvolta istintivo, mai arreso.
E poi c’è questa presenza costante di parole che identificano l’immaginario da cui attingere: la vita, il tempo, il mare, l’acqua, l’essere. Un ritorno perenne, come caro fu ai Greci che inventarono questi concetti, dando loro gli aggettivi e le storie per farli esistere in un’essenza impastata di mito, quanto di concretezza.
Pirandello (forse anche per riferimenti immediati che sorgono dal titolo e dai temi, mi è apparso subito in mente durante la lettura) scriveva dei Sei personaggi in cerca d’autore: «Nati vivi, volevano vivere», ed è questo a cui ho pensato mentre leggevo Vicedomini. Una poesia nata viva, impulsiva, che non sa ancora le coordinate del suo percorso, ma poco importa perché vuol vivere nella sua primaria essenza, velando – quanto scoprendo – le esigenze del suo autore.
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