Partiamo dal titolo, Il vaso di Pandora. Sì, perché la sensazione leggendo questo libro edito da Sonzogno è quella che ci venga rovesciato qualcosa addosso. Un calderone di personaggi mitologici e alberi genealogici, nascite e morti, amori e tradimenti. E Natalie Haynes nell’Olimpo degli Dei forse farebbe proprio la parte della Giustizia. Non l’iconica Dike con gli occhi bendati, quanto piuttosto Nemesi che nell’etimologia del suo nome contiene il verbo greco “distribuire”, ed è colei che compensa e ripara. La benda invece è quella che indossiamo noi lettori; una benda che, capitolo dopo capitolo, si assottiglia fino a scomparire.
Le protagoniste dei miti greci classici presentate qui in una nuova prospettiva, variopinta e squisitamente femminile. Avete mai pensato che magari Pandora non ha aperto di proposito lo scrigno con i mali del mondo, ma è semplicemente inciampata su un vaso senza coperchio?
Natalie Haynes prende dieci donne della mitologia greca, dieci storie conosciute, reinterpretate, fraintese e le rovescia mostrando l’altro lato della medaglia.
Scomodiamo uno che di miti un po’ s’intendeva. Un certo Platone che ne utilizzava l’immediatezza esemplificativa per rendere le proprie dottrine accessibili a tutti. Nel celebre mito della caverna, dei prigionieri costretti a guardare davanti a sé scambiano ombre di manichini proiettate dal fuoco come persone reali, non avendo alcuna conoscenza del mondo esterno. Per loro la realtà è quella e non è discutibile. Ma cosa succede quando vengono portati fuori?
È un po’ quello che fa la Haynes con noi lettori. Ci porta a spasso tra un mito e l’altro, ci invita a vedere con attenzione, ci mostra la potenza delle idee. E soprattutto ci suggerisce di non considerare esatta la versione più conosciuta di una storia, perché, come spesso accade, si rivela quella più lacunosa.
Queste donne erano nascoste in piena luce, nelle pagine di Ovidio e di Euripide. Erano dipinte sui vasi esposti nei musei di tutto il mondo. Si trovavano nei frammenti di poeti dimenticati e nelle statue rotte. Ma c’erano
Interessante come le donne che riempiono le pagine di questo saggio siano spesso introdotte dall’aggettivo “peggiore”. Pandora peggior progenitrice, Clitemnestra peggior moglie, Medea peggior madre. Addirittura, Medusa declassata al ruolo di mostro. Non è forse così che ci sono sempre state presentate?
La Haynes però ci offre una storia diversa, non tanto nobilitando l’immagine di queste protagoniste, quanto piuttosto donando loro altre dimensioni. Ne riporta i crimini e i difetti più stridenti, ma li accompagna con i traumi subiti e le aspirazioni sepolte. Dà loro una voce. Particolare non da sottovalutare, soprattutto in un contesto come quello della Grecia classica, dove il modello ideale di donna si realizzava nel concetto stesso di silenzio. Donna remissiva, donna silenziosa, e soprattutto donna ferma, immobile. Penelope in antichità era considerata come l’esempio di moglie modello. Ma cosa sappiamo noi di lei? Una donna di certo astuta, ma di cui nell’Odissea ci vengono offerte solo poche immagini. Addirittura, ci viene presentata per la prima volta coperta da un velo. Allora è questo forse l’ideale di donna? O forse il suo fare e disfare una tela, degradando il suo ruolo di tessitrice perfetta, status simbolo della moglie rispettabile, non ci suggerisce invece un altro intento?
Mi permetto un volo pindarico, chiamando in causa reinterpretazioni a noi contemporanee, cosa che la Haynes tra le pagine fa di continuo e pure bene. Penso a una tra le più recenti riletture di Penelope, la Penny Hume della serie televisiva Lost. Lei, a differenza della sua omonima e ispiratrice, non aspetta il ritorno del marito ferma. Penny Hume si mobilita, ingaggia una squadra di ricerca, sfida oceani, mondi e dimensioni per andare a riprendersi il suo esule Desmond, disperso chissà dove. Penny Hume corre, non rimane immobile. E forse è la dimostrazione che stiamo iniziando a muoverci anche noi.
Tra tutte le creature viventi, noi donne siamo le più sventurate
In questa ricerca la Haynes viene spalleggiata da quello che, a detta sua e non a torto, è stato il più grande tragediografo mai esistito, Euripide. L’unico ad aver dato voce ai personaggi femminili nel miglior modo possibile, molto più di quanto abbia mai fatto qualsiasi altro drammaturgo. Nel monologo di apertura delle Fenicie, Giocasta nel ricordare la perdita del figlio cresciuto da Merope al suo posto, dice questa frase: «Lei ha allattato il bambino che è nato dai dolori del mio travaglio.» Una frase potente, evocativa e piuttosto esplicita. Una frase parlante che suggerisce un dolore raramente indagato. Ma se chiedessimo chi è Giocasta, in quanti saprebbero dire che è la madre di Edipo? Sì, proprio lui, il creator certificato del complesso più famoso del mondo.
E Pandora alla fine sapeva davvero che il suo vaso conteneva tutti i mali della terra? Clitemnestra non uccide forse Agamennone perché dilaniata dal sacrificio della figlia Ifigenia voluto dal marito? Fedra non ha invece calunniato Ippolito per difendere i suoi bambini e distruggere ogni minaccia che pende sul loro futuro?
Queste non sono giustificazioni, quanto piuttosto sfumature. Pezzetti che rimangono incollati sul fondo del vaso e troppo spesso non sono stati rovesciati. Viene rimproverato a volte ai miti greci di esternalizzare le cause motrici delle storie narrate. Tutto accade sempre per colpa di qualcun altro. Qualcuno di divino per l’esattezza, e quindi non imputabile. Una volta è l’ira di Hera, altre la freccia di Eros o la vendetta di Poseidone. Poi alla fine, a risolvere la situazione, ci pensa solitamente un Deus ex machina uscito dal nulla.
Si potrebbe obiettare che Natalie Haynes tenta un po’ di fare questo. Di risolvere, elevando quelle storie che amiamo da sempre, di costruire livelli complessi come un designer di videogiochi esperto. La differenza però sta nel fatto che la Haynes non crea nulla. Le dimensioni sono già lì, nelle storie che pensiamo di conoscere a memoria, nei dialoghi detti a mezza voce e nei dolori soltanto accennati.
Natalie Haynes se mai ci aiuta a togliere la benda dagli occhi.
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