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I tendini di Zeus di Laura Pepe

Vorrei esser bifolco, servire un padrone, un diseredato, che non avesse ricchezza, piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte

Omero, Iliade

Succede, quando ci raccontiamo tante volte una storia. Credo sia un meccanismo umano, anche se non saprei dire quale: se poniamo la distanza del racconto tra noi e qualcos’altro – un evento, un sentimento, una persona –, dopo un po’ ci dimenticheremo della fisicità di quel qualcosa. Figurarsi, quindi, quanta corporeità devono aver perso i miti, non solo dopo esser stati cristallizzati in parola scritta, ma anche dopo la lunga, lunghissima reiterazione che se ne è fatta nei millenni. Per questo il saggio di Laura Pepe, I tendini di Zeus, è tanto prezioso: riporta al centro un elemento fondamentale del mito, che, se trascurato, non restituisce il significato nella sua completezza. Il saggio di Laura Pepe, infatti, parla del corpo.

I tendini di Zeus. Corpo, anima e immortalità nel mito greco

Un saggio sulla corporeità nel mito, e sulla concezione del corpo nell'epoca antica, a partire da Omero e dai racconti delle origini. Un viaggio alla scoperta di una parte tanto fondamentale quanto dimenticata del nostro passato più remoto.

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Che cos’è, si chiede Pepe, il corpo per gli antichi greci? Le fonti sono Omero, Esiodo, le pitture vascolari – stiamo andando molto indietro, ci addentriamo in luoghi a cui è difficile attribuire una corporeità. E il saggio ci mette in guardia proprio da un errore così grossolano, perché quando ci raccontiamo i miti non stiamo passeggiando per l’Ade, non siamo in visita a un regno incorporeo delle ombre: parliamo di uomini, donne, dei che hanno un corpo, forse inteso in modo diverso dal nostro, ma esattamente come il nostro.

Il corpo è permeabile, ed è attraverso il corpo che forze esterne, di regola divine, entrano nel soggetto, per alterare gli organi interni produrre, nel soggetto stesso, stati diversi rispetto alla normalità

Nel libro si racconta del corpo degli uomini, e di com’è inteso – non lo anticiperò qui, ma vi basti sapere che non è una concezione tanto banale. E parla del corpo degli dei, su cui invece mi soffermerò. Perché che le divinità del pantheon greco siano antropomorfe è cosa nota, ma il nostro progressivo avvicinarci a una concezione del divino come immaterialità ci impedisce di cogliere appieno quest’assunzione. Con antropomorfo ci sembra di capire che gli dei abbiano giusto la forma degli uomini, con tutte le dovute differenze. Sono come gli esseri umani, ma sono più belli, più forti, più agili.

Ma il corpo divino è un corpo vero, non si discosta da noi se non per un fatto, che è la sua corruttibilità, perché gli dei, per essere immortali e non fare la fine dei personaggi del racconto di Borges, devono conservare anche intatti le cellule, i tessuti, gli organi interni. Questo è reso possibile dal sangue che scorre nelle loro vene, che è l’icore, e non l’háima. Per il resto, però, il corpo è corpo. Pensate a quando, a proposito di icore, Afrodite è ferita alla mano da Diomede, nel V canto dell’Iliade. O a quando Efesto schizza con il suo seme la gamba di Atena dopo un tentato stupro, e lei deve ripulirsene. O a quando Peleo deve trattenere Teti – il corpo di Teti – che cambia forma, diventa tigre, fuoco, acqua, per poi tornare alla sua forma, familiare e indifesa.

L’infelicità dell’uomo arcaico – è stato detto – sta tutta nell’instabilità a ciclo continuo a cui soggiace il suo corpo, nel suo essere bisognoso e decadente

Il corpo, per il mondo greco, riveste una tale importanza che sarebbe un peccato dimenticarsene. Pepe è riuscita nel compito di consegnarci un libro agile ma esaustivo su quelli che sono i tratti fondamentali di una concezione che rischia di andare perduta, relegando così il mito a racconto puro e metafisico. Quando, invece, una delle sue forze più attrattive e uno dei motivi della sua sopravvivenza risiede proprio in quella corporeità, in quell’essere narrazione di corpi che si scontrano, che lottano per non corrompersi – per non morire – e diventare eterni, che si amano e su cui restano segni – del tempo, della battaglia, del sentimento.

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