Certo, il mondo cambia solo grazie a chi sogna un mondo nuovo. Certo, l’identità dei vivi è una rettifica continua degli errori già fatti, anche da chi è stato vivo prima di noi. Lucia potrebbe rimanere lì, essere l’avanguardia di chi l’ha preceduta e lavorare alla modernità del suo paese. Aiutare, cioè, la sua piccola comunità a raggiungere quello stato di grazia sociale nel quale non è più necessario protestare per difendere il proprio diritto alla vita
Il racconto dell’indagine condotta da Maria Grazia Calandrone alla ricerca dell’identità dei propri genitori biologici e delle motivazioni che li hanno spinti ad abbandonare la loro unica figlia e a compiere un gesto estremo.
Ci troviamo nell’Italia degli anni ‘60. Mentre le grandi città sono nel pieno del boom economico, le piccole realtà di campagna vivono ancora nell’arretratezza e nel solco di regole coercitive e tradizioni obsolete.
L’autrice, al pari di un abile detective, guida il lettore dentro un’inchiesta — condotta su testimonianze e documenti d’archivio, come gli articoli di cronaca dell’epoca — che scava nel profondo della storia individuale di Giuseppe e Lucia e di quanti si trovano a relazionarsi con loro.
"Dove non mi hai portata" esplora un nodo intimo e complesso. Indagando la storia dei genitori grazie agli articoli di cronaca dell'epoca, Calandrone fa emergere il ritratto di un'Italia stanca di guerra ma non di regole coercitive. Un Paese che ha spinto una donna forte e vitale a sentirsi smarrita e senza vie di fuga.
Lucia è stata costretta a sposare un uomo che non la ama e la maltratta, ma non si abbatte e non perde la speranza di un possibile riscatto, che intravede in Giuseppe, arrivato nella campagna di Palata per dirigere i lavori di costruzione di un serbatoio idrico.
L'autrice inserisce le vicende private dei protagonisti all’interno di quelle dello Stato italiano che sta ricostruendo sé stesso dopo il disastro della Seconda guerra mondiale. Storia particolare e Storia generale si intrecciano grazie ad alcune finestre di approfondimento che non esibiscono erudizione, ma intendono storicizzare e giustificare l’operato dei protagonisti. Basti pensare al trasferimento di Lucia e Giuseppe a Milano, necessario nella loro vicenda personale per sfuggire ad una condanna penale che pesa sulle loro teste ed inserito all’interno di un contesto più generale di emigrazione dal Sud al Nord, caratteristico dell’Italia degli anni ’60 (“Se ne vanno ubriachi di speranza, con le stente valigie”).
L’autrice non lascia nulla al caso, ogni dettaglio ha una sua funzione, una sua collocazione precisa nella storia. Al pari di un abile regista, gioca spesso di anticipazioni per tenere desta l’attenzione del lettore, e di inquadrature fugaci per salvare particolari destinati ad acquistare un rilievo nei capitoli successivi.
L’amore di Lucia per me, a me in persona sicuramente e semplicemente destinato, sta nel non avermi portata con sé nella morte, sta nel dove non mi hai portata e nel suo avermi riconsegnata alla vita
Al contrario di quanto si potrebbe pensare, nelle parole dell’autrice non c’è mai una nota di biasimo nei confronti dei genitori che l’hanno abbandonata, dato che ad animare l’indagine è uno sguardo costante di comprensione, che il lettore non può non condividere. L’autrice si identifica in maniera viscerale con i protagonisti della sua storia, abbracciando fino in fondo i loro pensieri e i loro stati d’animo con la tenerezza di una figlia che è anche diventata madre. In Dove non mi hai portata (Einaudi) c’è verità, unitamente alla volontà di difendere il diritto di ognuno all’amore e alla felicità. Non è forse questo che ogni essere umano desidera più di ogni cosa?
Sopra tutte, splende e riluce un faro: la definitiva formula alchemica dantesca «intelletto d’amore», quel sentire dell’intelligenza che permette a una contadina e un muratore di montare pezzo a pezzo un caso di cronaca, per salvare il salvabile, cioè me, vita lasciata vivere e che deve scampare allo sfacelo. Una volta e per sempre, Dante ha trovato il nome dell’amore immortale dei mortali
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