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Dimmi un verso anima mia. Antologia della poesia universale

È un libro di formule magiche, di esorcismi, di beneaugurali epigrafi, di oltraggi e di oltranze. Va letto come si sfoglia una carta del cielo: gli atlanti celesti del tedesco Johann Bayer, per dire, dove belve stellari si inseguono lungo gli emisferi, e il cosmo, infine, non è che cristallizzata lotta, concatenazione di colpe, crogiolo d’amore. Studiare le stelle per divinare un destino, per distillare un mito. Ecco. Questo è un libro antiaccademico, da usare come si maneggia un sortilegio. Va aperto a caso, questo libro – per instradarsi nel sentiero di un verso, per orientarsi al ritmo del poema

Così, Nicola Crocetti e Davide Brullo presentano Dimmi un verso anima mia, l’antologia universale della poesia in uscita il 14 novembre, proprio per Crocetti Editore. È un’opera mastodontica e mai tentata prima, anche nelle intenzioni: tutta la poesia del mondo, in un unico grande gioco combinatorio. Dagli Inni dell’India antica a Vivian Lamarque, da Virgilio a Wisława Szymborska, dall’Imperatore Monmu a Eugenio Montale. E poi ancora: dai Canti degli Sciamani Siberiani a Maria Stuarda, da San Paolo ad Anna Achmatova, da Lucrezio a Rainer Rilke fino a Vera Linder e Blu Temperini.

Dimmi un verso anima mia. Antologia della poesia universale

Non era mai stata tentata finora, con queste dimensioni, una antologia della poesia universale, dai Veda ai poeti odierni, dagli antichi inni egizi a Eugenio Montale, Seamus Heaney, Paul Celan, dai salmi biblici e da Saffo fino a Ezra Pound, Yves Bonnefoy e Mario Luzi. L’intento non è critico, tanto meno compilativo: si tratta di un salto nella meraviglia lirica di ogni paese e di ogni tempo, di un viaggio nella sorpresa e nello smarrimento. Libro per la vita, da tenere sempre sul comodino, a divinare i giorni, l’antologia mira a essere un lavoro imperituro, una sorta di “Mille e una notte” della lirica mondiale. Non è dunque lettura per gli “esperti”, ma per gli ispirati; per quelli che tra le maglie di un sonetto del Seicento o tra gli oscuri canti di un bardo islandese, tra le giaculatorie di uno sciamano dei deserti e negli snodi poetici di un trovatore di Provenza, trovano un conforto di curiosità, hanno il coraggio di sondare la propria anima. La poesia, si sa, è un rischio e un antidoto: leggerla, oggi, un gesto di sorridente sovversione.

Il metodo che ha animato questa antologia è rabdomantico, avventuriero; ovvero: predazione del meraviglioso. L’unica norma critica, in questo caso, in ogni caso, è il capriccio. Abbiamo inseguito i miraggi, i fuoripista, i fuorilegge, le strade perdute; ci siamo lasciati incantare dall’estrema El Dorado, dalle sirene dell’Orinoco; abbiamo creduto nella topografia di Shangri-La, abbiamo cercato il fiume segreto che purifica dalla morte gli uomini

I curatori mischiano le nazioni e le letterature, lasciano che siano le epoche a unire le poesie, come se la parola – perché è così – superasse i confini geografici e parlasse direttamente al tempo nel tempo. In questo modo, Ippen Shōnin capita vicino a Guinizelli e Cortázar a Dylan Thomas; i Canti Bardici Gallesi affiancano il Corano e chissà che cosa si raccontano, questi due: è come ammirare l’ordine segreto della libreria di Ettore Scola, che raccontava di mettere Cervantes accanto a Tolstoj, perché con Don Chisciotte vicino Anna Karenina sicuramente si sarebbe salvata. Ed è bello aprire una pagina, a caso, e lasciarsi incantare dalla sorpresa e dalla meraviglia. E al contempo scoprire assonanze improbabili, sbirciare i Maestri dei nostri Maestri, guardarci dentro.

Quest’animale triste che ci abita da migliaia di anni, le cui possibilità siamo così lontani dal conoscere, è il frutto d’uno sfiguramento – azione d’una cultura più interessata a nascondere all’uomo il suo volto che a portarlo, bello e tenebroso, alla luce limpida del giorno. È contro l’assenza dell’uomo nell’uomo che la parola del poeta insorge, è contro questa amputazione nel corpo vivo della vita che il poeta si ribella. E se osa cantare nel supplizio è perché non vuole morire senza guardarsi nei suoi stessi occhi, e riconoscersi, e detestarsi, o amarsi, se è il caso. Da Omero a S. Juan de la Cruz, da Virgilio a Aleksandr Blok, da Li Bo a William Blake, da Bash a Kavafis, la maggiore ambizione del fare poetico è stata sempre la stessa: Ecce Homo, sembra dire ogni poesia. Ecco l’uomo, ecco il suo effimero volto fatto di migliaia e migliaia di volti, che respirano tutti splendidamente nella terra, nessuno superiore all’altro, separati da mille e una differenza, uniti da mille e una cosa comune, somiglianti e distinti, simili tutti e ognuno d’essi unico, solitario, indifeso. È a tale volto che ogni poeta è legato. La sua ribellione è in nome di quella fedeltà. Fedeltà all’uomo e alla sua lucida speranza d’esserlo interamente

In questa dimensione quasi d’onomaturgia, in cui Crocetti e Brullo si fanno portavoci di una modalità di linguaggio nuova, un modo di abitare la poesia che rende chi legge più vicino alla collettività e al contempo unico in essa, sempre meno distante dal nucleo più vero del sé; è il titolo stesso della crestomazia a fornire un’ulteriore chiave di lettura: Dimmi un verso anima mia, come a segnalare subito una connessione profonda tra la spiritualità e la parola. Questa è la necessità della poesia, il suo perché, se un perché poi serve.

La poesia ha bisogno di essere difesa? E contro chi? Credo che chiunque abbia scritto o scriva versi lo sappia molto bene: dall’indifferenza del mondo. […] Forse perché se in così tanti la scrivono è necessaria. E forse l’unico modo per difenderla è quello di farla arrivare al maggior numero possibile di persone, cercando di ribadirne l’importanza e la bellezza

La poesia fa accedere a ciò cui di solito la parola è preclusa, come se potesse andare oltre i limiti stessi del linguaggio: evoca a tal punto qualcosa d’altro, rispetto al significato singolo, che non c’è più niente di razionale. Leggendo, è facile credere che non ci possa essere un altro modo per descrivere quella precisa situazione, o che forse  non c’era proprio nessun modo per dirla, eppure la poesia lo fa. Lo fa da sempre. È una lotta continua contro la significazione, un linguaggio oltre il linguaggio, o la distruzione del linguaggio mediante esso: innamorato del silenzio, un poeta non può far altro che parlare.

Oggi appassionarsi di poesia è avere la stessa ostinazione di quel poeta. Credere che cercare le parole giuste, tramandarle, ci possa salvare. E non importa se non le legge più quasi nessuno, se apparentemente non stanno cambiando il mondo, è come un dovere. E se ci credi, se credi che la poesia celebri la vita e addestri a morire, Dimmi un verso anima mia può essere uno strumento preziosissimo. Anche perché non è un libro, né tanto meno un testo di critica per addetti ai lavori, “è un incendio, un immenso atto d’amore.”

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