Nel 1983, a venticinque anni, Yasmina Reza esordisce a teatro con la pièce Conversations après un enterrement, che le vale ben presto il premio Molière come miglior autrice. Oggi, Adelphi, nelle mani della traduttrice Daniela Salomoni, ce ne regala l’attesa edizione italiana.
Stammi a sentire, finora questa giornata è trascorsa senza sconvolgimenti, se così si può dire. Siamo persone civili, soffriamo secondo delle regole, ognuno trattiene il fiato, niente tragedie... Perché, in fin dei conti? Non lo so, ma è così. Io e te prendiamo parte a questo sforzo di dignità. Siamo discreti, «eleganti», siamo perfetti…
Il giorno del funerale del padre, i tre figli – Nathan, Alex ed Édith – si ritrovano nella tenuta di famiglia, nella Loira, dove l’uomo ha scelto di farsi seppellire. Insieme a loro lo zio Pierre, la sua nuova moglie Julienne e l’ex fidanzata di Alex, Élisa. L’andamento della drammatugia è un gioco di luci e ombre che si aggroviglia nelle emozioni che caratterizzano i rapporti tra i familiari, in particolare tra i due fratelli.
Alex è il minore, il più irascibile, il tipo di persona che non riesce mai a indovinare il momento giusto per fare qualcosa. Vede in Nathan la sua nemesi, l’eroe pieno di saggezza che ha successo in tutto ciò che fa, il centro gravitazionale dell’ammirazione familiare. Nathan ama la campagna, Alex la trova deprimente; Nathan è felice che suo padre sia sepolto nel bosco, Alex ne è turbato; Nathan sapeva capire il padre, Alex provava disagio con lui; Nathan ha preso l’amore di Élisa e poi ha saputo rinunciarvi per il bene del fratello, Alex l’ha perduta e ha preferito l’oblio e un sommesso rancore.
Tre anni fa Élisa mi ha lasciato. All’epoca tutti mi hanno preso per un imbecille. Imbecille e cieco. Lui ha fatto in modo di non rivederla più. Per affetto nei miei confronti, immagino… Si è fatto da parte... così come ha rinunciato alla musica, così come ha rinunciato al suo fulgore, alla vena di follia che aveva, al suo eroismo… Quel che è certo è che io non ho mai amato nessuno più di lui. Se Nathan morisse, non puoi immaginare quanto mi sentirei solo… Forse quanto lui oggi…
Borges, nella sua particolare rilettura dell’episodio biblico di Abele e Caino, Elogio dell’ombra, parla dell’incontro tra i due, i cui segni sulla fronte sono invertiti al punto da portare Abele a chiedere a Caino: «Tu hai ucciso me o io ho ucciso te? Non ricordo più. Stiamo qui insieme come prima». Caino risponde che adesso sa di essere stato perdonato «perché dimenticare è perdonare», e allora anche lui cercherà di scordare. «È così» conclude Abele «finché dura il rimorso dura la colpa».
È inevitabile pensare che Reza abbia attinto dal suo maestro per scrivere di Alex e Nathan. I due fratelli si amano ma subiscono la reciproca sensazione d’inferiorità e di superiorità, imposta prima dal padre e poi accentuata dal tempo, fino a scavare una fossa. Un’altra morte. E ovviamente Élisa aggiunge peso a questo conflitto atavico: è dilaniata dal suo amore per Nathan ed è dilaniata dall’essere amata da Alex, vuole andarsene e vuole restare allo stesso tempo. La sua macchina, però, si rompe ogni volta che ci prova, come a indicare l’impossibilità di risolvere questa situazione ambigua.
Eppure, questo dolore che sembra sempre trasformarsi in violenza, proprio nel memento in cui arriva all’apice ed è pronto a un’esplosione, allo sconto fratricida, viene disinnescato dal perdono cui fa riferimento Borges. Un perdono molto umano, che non è trovare le risposte ma fare un po’ più pace con i propri sentimenti.
Abbiamo attraversato Dampierre, tu hai messo su una cassetta... hai messo su una cassetta ed era un quintetto di Schubert...Ti sei voltata, mi ha chiesto se era troppo forte e io ho detto: «No, no, no, no... Non cambiare niente, mi raccomando, non cambiare niente». Tu non hai cambiato niente e io ho rovesciato la testa all’indietro, e ho visto gli alberi, le luci che fluttuavano, i rivoli d’acqua che si infrangevano sui vetri, lo sguardo di Nathan nel retrovisore, lo sguardo sorridente di Nathan, e la notte... La nebbia, e la notte... Ed ero, come dire, svuotato, senza peso sul sedile posteriore, fiducioso, protetto, stavo indicibilmente bene…
Come si può intuire dal titolo, Conversazioni dopo un funerale riunisce il tragico e il comico, il serio e il frivolo, la morte e l’amore, la parola e il silenzio. La dicotomia punta sempre all’oscenità (cosa è più osceno della morte?), all’esibizione: le parole possono deridere, così come possono essere assolute, ma alla fine sono sempre qualcosa che arriva a seguito del giorno del funerale, e quindi sono ciò che si scontra con il dolore, mettendo a fuoco tutta la banalità che accerchia la sofferenza e la tragedia.
Lo stile di Reza è chiaro, chirurgico, ovvio solo in apparenza. I personaggi di cui scrive sono esseri credibili e vivi, ne vediamo l’intera esistenza cambiare in un solo giorno. È forse per questo motivo che l’opera ha avuto tanto successo: ci rende voyeur del dolore di una famiglia, descrivendolo con sensibilità e delicatezza, fino a farci compartecipare alla valutazione di ciò che è importante, davvero.
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