Yasmina Reza fin da subito fa al lettore, senza dirlo ad alta voce, una precisa promessa: Serge (Adelphi) non parlerà di Serge.
O meglio, non parlerà solo di Serge. Serge si farà strada lungo i margini, farà capolino nei dialoghi, borbotterà, in fondo alla pagina, un commento sarcastico – Serge sarà di certo presente, fa parte della famiglia. Ma come ci si aspetta da una famiglia, non è solo.
In questo romanzo Yasmina Reza ci fa entrare nel cuore di una famiglia di origini ebraiche, i Popper, e più precisamente nei complessi, e non di rado conflittuali, legami fra tre fratelli: Jean, il narratore, «quello di mezzo», cresciuto all’ombra del maggiore, il Serge del titolo, un cialtrone bigger than life, inconcludente, superstizioso, scorbutico, scorrettissimo, fragile e seducente; infine Nana, la più piccola, moralista e petulante
La famiglia, che in questo caso si chiama Popper, non è una qualunque: nonna corre sulla cyclette con davanti una fotografia di Vladimir Putin,un uomo con gli occhi tristi, dice. E quando morirà si vuole far cremare, ma sia chiaro, non vuole finire nello stesso cimitero del marito:
«[…] dove vuoi essere sepolta mamma?» «Da nessuna parte. Non me ne può fregare di meno». «Vuoi che ti mettiamo insieme a papà?». «Ah no, con gli ebrei no!»
Nana allora ripensa a suo padre, orgoglioso ebreo tutto d’un pezzo, e al crepacuore che gli aveva scatenato sposando quello spagnolo sgangherato di Ramos Ochoa – e si destreggia con i figli Margot e Victor, che non risponde alle mail dei ristoranti ma vuole diventare uno chef. Josèphine osserva divertita tra un messaggio sul cellulare e una ricerca in internet, perché vuole assolutamente andare ad Ausciuiz – e subito suo padre:
«[…] Come dicono i goyim!... Impara a pronunciarlo intanto! Auschwitz! Auschwwwitz! Vvv…!»
Zio Maurice è ricoverato e dice di voler morire, ma urla fino all’ultimo una vitalità verace:
Gli dico, se vuoi morire perché fai tre sedute di fisioterapia a settimana? Risponde, siccome non sono certo che tu approdi a qualcosa, ottimizzo le due opzioni.
Jean, infine, narra fotografie dettagliate di tutti, senza avere la pretesa di splendere o ripulire – in onestà. È sua la voce che accompagna. E si tiene stretto al fianco di Serge, il fratello maggiore, che rifugge gli scatti ed escono mossi, ma raccontano tutto.
Se il romanzo non parla di Serge, allora è il lettore a doverlo conoscere. Il gioco di Yasmina Reza è chiaro, e noi l’assecondiamo volentieri, con la maschera del profiler all’americana. Quello che troviamo è allora ciò che Serge non è, o meglio, non fa: non dorme nelle stanze che riconducono al nove; non riesce a tenersi Valentina; non mantiene la calma con Victor, e non riesce a dormire col paralume dell’abat-jour girato. Non si capisce che lavoro faccia, ma in vacanza gira in completo. E nel viaggio ad Auschwitz, convinto da sua figlia Jo, non vuole partecipare. Fuma e usa la scusa della claustrofobia. Davanti alla Judenrampe, dice:
«Lasciatemi in pace.» «È dove sono arrivati cinquecentomila deportati!». «Chissenefrega». «È il peggior posto del mondo papà!». «Sono aggredito dagli insetti». «E allora esci!». «No»
Poi però, rimasti soli, guarda Jean, e dice di avere un infarto. E aggiunge anche che teme di perdere i pezzi. Va in panico. Suo fratello lo abbraccia. A quel punto, allora, ammette:
«Che ci facciamo qui? Andiamo via, Jean. Queste targhe che parlano all’umanità, questo mostruoso selciato!». […] Con la testa contro la mia mormora, odio tutto questo.
Impariamo a conoscere così quell’uomo burbero e nevrotico, oltre all’urto delle apparenze. E anche noi, alla fine, lo osserviamo commossi insieme a Jean:
Vedo il corpo di mio fratello. Il completo della domenica e i capelli grigi. Mi sembra meno solido. Si direbbe che zoppichi un po’.
La famiglia che dipinge Yasmina Reza forse non è una qualunque, ma di certo è universale. La racconta con vividezza tagliente, e lascia che i personaggi parlino per sé. Che ingombrino la pagina e aprano le imposte sulle proprie vite, così frenetiche da lasciarci il tempo di curiosare. Non recide nulla, lascia a bocca aperta e fa in modo che qualcuno rimanga sgomento. Perché tra quella realtà familiare particolare e folkloristica, con quel gusto po’ alla Amarcord, traspare perfettamente tutta l’umanità. Senza bisogno di dichiararsi.
Dopo il successo di Babilonia (Adelphi, 2017), l’autrice, drammaturga e sceneggiatrice torna a pubblicare con la dolce familiarità di Serge. E continua a fare, silenziosamente, rumore.
Di colpo si gira e dice a Serge che si trascina qualche metro indietro, secondo me, in vita tua non hai combinato mai niente. Lui si ferma, dà un tiro alla sigaretta e dice, lo penso anch’io.
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