Non è più sufficiente essere ricchi, bisogna continuare ad arricchirsi. È il motivo del profitto, anzi il movente del profitto
Se ci si guarda indietro, fino a qualche tempo fa la critica al capitalismo era appannaggio di pochi: se ne parlava tra gli operai, anche se più che una faccenda di capitalismo era una faccenda di diritti dei lavoratori, e se ne parlava in politica, ma come sono andate le cose lo ricordiamo più o meno tutti. Verrebbe da dire che oggi, al contrario, sembra molto più semplice essere dalla parte di chi disprezza e vuole vedere morto il capitalismo, questa belva che tutto fagocita e che presto collasserà sulla sua stessa fame.
Poi c’è chi sta nel mezzo, chi analizza con sguardo super partes – ed è difficile, perché ci relazioniamo tutti con questo concetto – e anzi cerca di tirare le somme su cos’è davvero il deturpato capitalismo. È quel che succede nel saggio di Alberto Mingardi, per esempio.
Parola detestata dai più, che sottintende spesso un giudizio negativo. Perché? Da sempre l'umanità scambia beni e servizi, ma è dalla Rivoluzione industriale che la dimensione economica del mercato ha modificato radicalmente la nostra vita: per la prima volta nella storia abbiamo sperimentato cosa vuol dire «crescita», e con essa un aumento del reddito medio e della speranza di vita.
È una parola sbagliata. Pensata sbagliata, costruita sbagliata
Fa sempre comodo partire dalle parole, quando si cercano le origini di qualcosa. In questo caso, di un concetto, di un modello economico, di un tipo di società. In Capitalismo però si va un po’ oltre, perché questa parola è l’esito di un processo già in corso: c’era, e gli si è dato un nome. L’originalità di Mingardi sta, credo, nel sostenere una tesi tanto onesta quanto pericolosa – pericolosa perché rende pericolante –, ovvero che questo agglomerato di situazioni più o meno causate e più o meno razionali è in realtà frutto del più spregiudicato e incontrollabile caso.
Come sempre quando nasciamo e cresciamo con un monolite – sia pure concettuale – che investe quasi ogni lato della nostra vita, anche con il capitalismo è accaduto che si razionalizzasse qualcosa che razionale non era, almeno alle origini. Non lo è neppure ora, ma le cose si mascherano meglio, anche se non è raro sentire di bancarotte o eventi disgraziati per quell’imprenditore o quell’imprenditrice.
Alle origini, alcune condizioni favorevoli allo sviluppo di una certa idea di libertà economica – siano esse legate al feudalesimo, alla religione o all’attitudine – hanno permesso il dilagare di questo modo di produrre e consumare. Hanno permesso, come scrive Deirdre McCloskey, un great enrichment, un grande arricchimento, che, per il benessere che ha portato, non poteva più tornare indietro.
Quella del capitalismo è una storia i cui protagonisti sono esseri umani, e questo significa che abusi e ingiustizie ne fanno parte a pieno titolo
Stiamo, ci dice Mingardi, peggio, per quanto riguarda il denaro, di trent’anni fa, ma meglio dei nostri nonni. L’idea che il progresso sia lineare è sciocca, per inciso, e proprio quel che credo voglia far emergere l’autore è che la storia, l’economia e queste piccole trovate umane sono ondulatorie e imprevedibili. Ci proviamo a fossilizzarle, ma quelle resistono, sgusciano, sono liquide. Il capitalismo non fa eccezione, per quanto sia da un lato della barricata sia dall’altro si tenda a cristallizzarlo: i detrattori perché ingiusto, i fautori perché l’unico modo davvero libero e possibile.
La verità qual è? La domanda è mal posta proprio come quando ci si chiede il capitalismo cos’è. Non è un’ideologia, non è statico, men che mai è stabile. È umanità, scelte – discutibili e non – e caso, una creatura tanto mostruosa quanto familiare. Ci tenta credere il capitalismo qualcosa di comprensibile appieno, ma Mingardi ci ricorda che no, non si può: il capitalismo avrà, come infinite cose a questo mondo, punti oscuri con cui fare i conti, né da demonizzare né da celebrare.
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