Un “non-romanzo”, così lo ha definito la stessa autrice. Al faro di Virginia Woolf è un’elegia sul passare del tempo, è un caleidoscopio di emozioni e riflessioni umane.
Il libro si apre con una promessa: la signora Ramsay, in vacanza con amici e familiari in una casa alle isole Ebridi, assicura al figlio James che il giorno dopo andranno in gita al faro. Il signor Ramsay ribatte subito che non sarà possibile, perché ci sarà brutto tempo.
Articolato in due "momenti" complementari e opposti, il romanzo si esprime dapprima nel tempo dell'attesa, della possibilità, della fluidità; quindi nel tempo della realizzazione, della conclusività, della concretezza, quando la gita al faro annunciata un decennio prima finalmente si compie, ma in circostanze profondamente mutate.
La tensione tra questi due personaggi, che, opposti tra loro, simboleggiano la psiche femminile e quella maschile, è l’inizio di un gioco di luci e ombre che tocca diverse tematiche e diventa motore della narrazione. La Woolf fa scontrare e dialogare la figura femminile tradizionale con quella moderna, l’amore coniugale e quello materno, la memoria e l’illusione, l’istinto e la ragione. Non sono i grandi eventi ad avere rilevanza: le visioni fugaci e potenti contenute in questo libro nascono piuttosto dall’unione di piccoli frammenti di gesti e pensieri.
Tradotto talvolta anche come Gita al faro, il titolo non rappresenta solo il desiderio di James che sarà filo conduttore della storia, ma racchiude e anticipa questo generale andamento contrappuntistico. D’altra parte cos’è un faro, se non un continuo alternarsi di buio e luce sullo spazio circostante?
Con la tecnica del flusso di coscienza che ha reso questo libro uno dei simboli del modernismo, la narrazione intreccia agli avvenimenti esterni i moti interiori dei vari ospiti della famiglia Ramsay. Il punto di vista passa con scioltezza da un personaggio all’altro, e attraversa la soggettività di ognuno in un modo che sembra quasi non contemplare l’esistenza di una realtà oggettiva al di fuori di loro. Virginia Woolf scava l’interiorità umana, spingendosi finché seguirne i pensieri diventa “come seguire una voce che parla troppo in fretta per riuscire a prendere nota di quanto dice; e tale voce è la sua stessa voce, che dice, senza bisogno di suggerimenti, cose innegabili, eterne, contraddittorie.”
Come spesso accade, è dal vissuto che l’opera trae la sua più profonda autenticità. La componente autobiografica emerge soprattutto nelle figure della signora e del signor Ramsay, specchi della madre e del padre di Virginia Woolf: la sorella Vanessa scrisse di avere ritrovato nella signora Ramsay “un ritratto della mamma che le somiglia più di quanto avrei mai creduto possibile”.
L’autrice è entrata anche in prima persona nelle pagine di Al faro, costruendo il personaggio della pittrice Lily Briscoe come alter-ego di se stessa. Lily è la protagonista indiscussa della terza e ultima parte del libro, ed è nella sua indagine artistica che si può ritrovare una chiave di lettura. Con i suoi interrogativi, il suo affanno nell’osservare il mutamento delle cose, il suo desiderio di staccarsi dalla propria soggettività, per arrivare all’essenza, la pittrice simboleggia la generale tendenza dell’umanità a porsi domande, a cercare sempre qualcosa di assoluto.
Di fronte al gioco di riflessioni e giustapposizioni di Al faro, di fronte al suo stile complesso, sentiamo inizialmente la stessa impotenza che prova Lily davanti al panorama che vuole dipingere. È da questo che capiamo la grandezza di un libro che era considerato “non per tutti”, e che invece non potrebbe essere più universale. Il lettore diventa egli stesso Lily Briscoe, e partecipa, nello sforzo che gli viene richiesto, alla ricerca di una verità e di un senso generale: una ricerca che è qualcosa di faticoso, che a noi, all’autrice e ai personaggi assorbe tutte le energie, ma che risulta, come lo è questa lettura, infinitamente preziosa e in qualche modo necessaria.
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