I primi giorni nella capitale sabauda furono angoscianti per il giovane oriundo, poco avvezzo al rigore della blasonata società e alle sconosciute nebbie continentali. (…) si era portato il suo violino, stava in casa a suonare "Mi noche triste" di Pascual Contrusi, oppure a piangere cercando invano di concludere le rime di "Buenos Aires mi querido". Soffriva di quella malattia che i porteños chiamano tanghitudine che assale in determinati e precisi casi: lontano da casa, lontano da tutti; parlando o scrivendo ai genitori ci si sente improvvisamente più vecchi di loro; quando si è sulla soglia di un addio, uno qualunque. Un peso si pianta sullo stomaco e nessuna bevuta d’arzente riesce a scioglierlo, l’insicurezza prende il sopravvento, l’amore non è più amore, è solo tradimento, la gioventù un inganno effimero della vita, l’amicizia una bufala.
Quando un libro può dirsi riuscito? Secondo me, quando ti spinge ad andarne a leggere di nuovi.
Se per esempio ci spulciassimo Sociologìa del tango di Julio Mafud, scopriremmo che questa tanghitudine di cui soffre il poveretto qui sopra, in realtà, più che di malattia si tratta di stile di vita. Il tanguero, si legge, non è solamente colui che canta o balla il tango ma chi, senza fare nulla di questo, vive e si rapporta al mondo come se il tango fosse sedimentato nelle radici del suo essere. Un altro autore argentino, Ernesto Sabato, in Tango, discusiòn y clave precisa: “Un napoletano che balla la tarantella lo fa per divertirsi; il porteño che balla un tango lo fa per meditare sulla sua sorte (che generalmente è disgraziata) o per allontanare i brutti pensieri sulla struttura generale dell’esistenza umana.”
Tanghitudine e psicanalisi vanno quindi a braccetto, o per rimanere in tema, si accompagnano l’una avvinghiata all’altra proprio come una coppia di tangueros. Il tango, non a caso, è stato fortemente terapeutico per i migranti europei in Argentina: la sua musica, i suoi testi impregnati di nostalgia e struggimento e i passi lenti e insieme accelerati tipici della sua danza, hanno rappresentato un porto sicuro dove ripararsi dalla solitudine, una medicina per smorzare le tristezze della vita e i patimenti dell’animo.
All'inizio del Novecento, Genova e Buenos Aires erano quasi un'unica città separata da un oceano di mare. Gli italiani superavano per numero gli immigrati degli altri paesi e i nativi messi assieme. È il tempo in cui «un argentino è un italiano che parla spagnolo ma pensa di essere inglese» e nella Parigi del Sudamerica tutti impazziscono per un nuovo sport: il football.
All’alba del secolo lungo, Buenos Aires era una delle mete più gettonate per cercare fortuna e rifarsi una vita. La Parigi del Sudamerica, come veniva chiamata, era ambita soprattutto dagli italiani, il cui numero superava quello degli altri migranti e dei nativi messi assieme. In tantissimi ai tempi partivano da Genova, e si può ben dire che ci fosse una sorta di filo rosso a legare il capoluogo ligure e la capitale argentina, divise unicamente dall’Atlantico. Oltre agli architetti, ai costumi e alle specialità culinarie come la farinata di ceci genovese (rinominata fainà), gli italiani esportano lo sport che sempre più stava prendendo piede nel mondo e che, oltreoceano, diventerà un’autentica malattia collettiva: il football.
E sono “i figli dell’Europa rovesciata e depositata dall’altra parte dell’Atlantico”, i cosiddetti tanos (italiani d’Argentina, ma non solo: Uruguay, Paraguay, Brasile, Cile ecc.) in seguito noti come oriundi, i protagonisti del libro di Marco Ferrari Ahi, Sudamerica! Oriundi tango e futbòl (Laterza). In particolare, quei calciatori e allenatori di discendenza italiana nati o cresciuti nel Sudamerica che a un certo punto, spesso dopo essere riusciti a scalare le vette del calcio sudamericano, hanno ripercorso a ritroso il viaggio compiuto dai padri, finendo per lasciare un segno indelebile anche nella storia del nostro calcio.
Senza mai annoiarci e attraverso una scrittura ricca e al contempo semplice, Ferrari traccia le storie, talvolta esilaranti e talvolta tragiche, di questi eroi sportivi divisi con il corpo e l’anima tra l’Italia e il Sudamerica, rinfocolati nello spirito dalle intense note del tango. Troverete personalità celebri: José Altafini, Omar Sivori, Renato Cesarini (sì, quel “guascone” che si divertiva a segnare nei minuti finali e da cui è nata l’espressione zona Cesarini), ma anche nomi che magari sfuggono ai più giovani come Attila Sallustro, figlio di emigrati napoletani in Paraguay e primo calciatore del Napoli a vestire la casacca della Nazionale azzurra; il trio delle meraviglie Baloncieri-Libonatti-Rossetti che fece appuntare sulla maglia del Torino il suo primo scudetto; Angiolino Badini, figlio di un capomastro bolognese emigrato a Rosario di Santa Fe, partito tra le fila dello Sparta Rosario e infine approdato proprio al Bologna, di cui sarà per otto anni capitano e trascinatore.
L’opera di Ferrari, a metà tra l’urban fiction e la letteratura di viaggio, scorre via in meno di novanta minuti, e non solo ci fa assaggiare le città che fanno da sfondo alle storie dei calciatori, ma ci fa vivere gli anni, specie quelli a cavallo tra i due conflitti mondiali, in cui gli articoli delle gazzette sportive esaltavano le gesta calcistiche con toni a dir poco epici e che probabilmente oggi ci farebbero sorridere (le partite spesso e volentieri venivano definite “battaglie”). Un’epoca nella quale i calciatori scendevano in campo con la cravatta al collo e il basco in testa per non rovinarsi i capelli, e dove il divismo degli atleti, seppur molto lontano da quello patinato di oggi, cominciava ad affacciarsi a una società ancora bacchettona, eppure visceralmente sedotta dal futbòl.
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