“Un vocabolario napoletano di effetti personali” fa da sottotitolo al nuovo libro di Erri De Luca, A schiovere (Feltrinelli), dove sotto quegli ”effetti" scorgiamo invece da subito quegli affetti, quei ricordi a lui più cari e familiari che si snodano intorno al cuore di una città unica, di cui ci aveva già reso partecipi nelle indimenticabili pagine di Montedidio e nei bellissimi romanzi in cui Napoli si fa pagina, sfondo al ritmo della vita che emerge dai ricordi.
In queste 101 voci napoletane Erri De Luca innesta cultura e storia di un’intera città e dei suoi abitanti. Lo fa liberamente, muovendosi da una parola all’altra in maniera apparentemente casuale – “a schiovere”, come si dice a Napoli, a vanvera –, eppure tutto si tiene e diventa racconto.
Un dizionario sentimentale di un lessico intimo, che scava nella memoria donando un surplus di senso, di densità alle parole. Scavando nello spessore e nella musicalità dei termini napoletani scelti riusciamo quasi, grazie alla poeticità della scrittura di De Luca, perfino a sentire le voci, le tonalità mescolarsi alla scrittura, al segno, infrangendo il timore dello stesso autore di non riuscire a trasmettere i toni e la gestualità “che decidevano del significato, tragico o ironico, benevolo o ingiurioso”.
Squarci familiari e storia napoletana sottendono i lemmi ampliando il significato in declinazioni poetiche e talora arcaiche, ridando voce al passato. “E’ la maniera con cui mi vengono le storie, sbucate alla rinfusa da un guizzo di ricordo” scrive, delineando questa atipica autobiografia in una temporalità non lineare. Dove si passa dai ricordi d’infanzia, dalla scuola degli anni Cinquanta, ai bombardamenti di Belgrado nella primavera del ’99.
Erri De Luca si muove ancora una volta nei luoghi della memoria, ma lo fa, in questo libro, facendo filtrare l’emozione dei ricordi nella trama delle parole, nei modi di dire ed espressioni gergali. La voce di due indimenticabili figure femminili, la mamma e la nonna si unisce caricando di senso e di affetto la maggior parte dei centouno vocaboli presi in esame, “estratti dal mio giacimento napoletano”.
Matriarcale è la trasmissione dei moniti e delle espressioni più cariche di emozioni, spesso “passate in disuso”, come “Pigliarsela a farfariello”, che perde di potenza evocativa nella sua traduzione “indiavolarsi”. Tanti sono gli aggettivi e le tonalità che accompagnano le voci che danno colore e direzione alle parole: “seria, asciutta “, “dal tono bonario”, ma “indelebile” è quello che ci graffia la memoria, come in quel “Frusciarse” che “mette in guardia come un preavviso.”.
Anche la storia di Napoli, scavando nella stratificazione della città storica dagli antichi Greci al Settembre del 1943, quando il popolo napoletano riuscì a respingere i tedeschi, o nell’immediato dopoguerra si fa carico di parole locali per sottolineare la propria singolarità, come “Allucco”, lo strillo che “indica i decibel di una città acustica”, dove le voci si fanno sentire da un balcone all’altro o dalle strade alle finestre” allucchi di andata e ritorno”.
Oppure “Artèteca” che descrive l’ “esuberanza motoria” dei napoletani come può manifestarsi apparentemente in un luogo pubblico, in contrasto con la flemma del singolo visto da vicino. “In altre città ci si muove come dentro un acquario, a Napoli per strada si sta in un padellone di frittura mista”.
Sulle tracce dei termini, più o meno noti, che danno senso ai ricordi, lo scrittore non si muove spinto dalla nostalgia, ma spesso per “simpatia verso la precisione e il senso di una parola” che tende a “sbiadire”, “scalzata dall’infiltrazione dell’italiano”.
Talvolta egli risale ai “rimbalzi” di significato tra le parole stesse che a Napoli sembrano prendersi gioco della lingua ufficiale, passando anche spudoratamente da un avverbio ad un sostantivo, come “Malamente”, che in napoletano è il prepotente, “personaggio tipico delle sceneggiate”, oppure divertendosi con diverse sfumature di significato, o doppi sensi e varianti, o con parole che sono “combinazioni di parole”.
E in questi giochi il lettore viene catturato e ammaliato dall’ironia che a Napoli “è rivolta più verso sé stessa che agli altri”.
Anche i proverbi e aneddoti ci mostrano sfaccettature inedite del napoletano portandoci alle origini del senso delle parole o per analogia ad altri luoghi e ad altre lingue. Lasciti dello spagnolo e dello Yiddish si ritrovano a tratti nel folklore partenopeo, in questa biografia delle parole che recupera termini dimenticati anche nella tradizione delle canzoni e poesie popolari, parole che portano odori penetranti e suoni oggi attutiti.
Se la parola ha creato il mondo e ci fa partecipe di esso, questo dizionario sentimentale di centouno parole intorno a una città ci sembra volerla preservare nella sua autenticità, in una sospensione di tempo. Perché anche il tempo a Napoli ha una sua misura, fatta di intervalli in cui succedono le cose più importanti, come nella parola “Pe’tramente”, nel frattempo, o nella “formula di esagerato anticipo” di “Primm’e mo’”, prima di adesso. Ma è solo” con il guizzo di una sillaba, Mo’ “che il napoletano afferra il tempo, mentre la lingua italiana”, con il suo adesso, “se lo fa sfuggire”.
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