“Mussolini” è un cognome che non richiede spiegazioni. O forse sì, se sei sua sorella e ospiti nella villa una famiglia di ebrei e un comando di tedeschi.
Negli anni Trenta Alberto Szegö era solo un bambino. Ricorda ogni cosa e affida a queste pagine il suo vissuto, tra sezioni saggistiche che incorniciano le dinamiche storiche e parti narrative a cui sono affidati gli episodi più importanti della sua vita familiare.
A casa di donna Mussolini è il racconto dell’incredibile vicenda degli Szegö durante i crudi anni del fascismo, ma anche dell’Italia industriale e delle piazze in rivolta, di un Paese che si prepara a resistere all’impatto.
Cristina Petit ha reso la testimonianza di Alberto Szegö un saggio appassionante, dal sapore dolce e acre allo stesso tempo, dove la vita e la morte sono a un pianerottolo di distanza.
Questo racconto vero, dal passo di romanzo, intreccia storia del Novecento e lessico famigliare, tragedia e speranza: un’avventura nel tempo e nella memoria.
L’incontro tra i genitori di Alberto non è stato casuale.
Maria è una giovane italiana cattolica, Lajos un ingegnere ungherese ebreo. Sono due spiriti affini, distanti per origine e credo ma accumunati da passione e coraggio. Nonostante gli ostacoli perchè celebrazione della diversità, il loro matrimonio è il primo tassello di una vita sempre in salita, frammezzata da qualche discesa solo per riprendere fiato.
Dopo la loro unione le difficoltà sembrano alle spalle e Forlì è la città ideale per dedicarsi ai progetti di vita, radiosi come i tre figli nati dal loro amore, indistruttibili come la casa costruita con dedizione.
Un equilibrio cristallino, così limpido da vedere per tempo qualunque ombra ci sia all’orizzonte, che diventa giorno dopo giorno più cupo.
L’avere dei figli propri aveva attivato in lei uno stato di preoccupazione perpetua, come se si fosse votata ad assicurare almeno il loro benessere fisico, non potendo garantire un altro tipo di sicurezza: quella che la situazione politica italiana stava mettendo a dura prova.
Poi, arriva la bufera tanto annunciata. È gelida, ha un’andatura veloce e raggiunge ogni luogo. Non ha un corpo ma ne ha molti, che lo nutrono giorno dopo giorno. Il suo nome è fascismo e sbrana tutto ciò che incontra, anche la quotidianità di Maria e Lajos, che con valigie cariche di paura partono senza una meta.
Un’articolata rete di soccorso li conduce in un paesino dal nome profetico, Premilcuore, e le loro speranze sussultano quando la generosa Edvige Mancini si offre di ospitarli.
Un inquietante scherzo del destino però si nasconde tra le pareti di casa sua:
«È il minimo che potessi fare, l’appartamento del piano di mezzo è vuoto. L’ultimo piano invece è occupato da un comando tedesco.»
«Un comando tedesco?!» uscì senza controllo a Lajos, che si sentì mancare.
«Sì, si sono sistemati al secondo piano, ma sono molto discreti, vedrete che vi troverete bene.»
«Certamente! Staremo benissimo!» disse Maria disinvolta cercando di distogliere l’attenzione dal marito, che si era completamente bloccato.
Qualcuno li ha traditi, spingendoli nella tana di un branco di lupi. Edvige ha un cognome da nubile che non lascia adito a dubbi, lo stesso del Duce che li sta perseguitando.
Loro sanno chi è lei, lei non sa chi sono loro (almeno all’inizio). Nasce così tra gli Szegö e Donna Mussolini un sincero affetto, con Maria che diventa ben presto per Edvige una confidente sincera e umile.
Nulla però è come sembra. Anche Edvige scappa da qualcuno. Nemici diversi, stessa paura negli occhi, anestetizzata da un’amicizia che non guarda agli orientamenti politici.
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