Io e Insi non ci incontriamo da un po’.
O meglio, non passa mattina in cui non lo trovi, appena sveglia, ai piedi del letto, accanto al barattolo del caffè nel caso abbia la malaugurata idea di mangiare qualcosa per colazione, a indicare vestiti prima che li possa provare. Oggi ce l’ha con i miei jeans skinny, dice che sembro compressa.
La novità è che tra uno sbadiglio e l’altro, tra una o mille domande sul senso del presente o del futuro, lo saluto a malapena perché - come ogni giorno - c’è da correre e qualsiasi parola inizi con auto e non finisca con nomia non serve assolutamente a niente.
... che bella sensazione, questa indipendenza! eppure non mi sono trasformata in una creatura illuminata, devo essere solamente diventata agile nello slalom tra dubbi insignificanti.
Ma com’è possibile che sia diventata così brava? Non sarò mica… cresciuta?
No, non penso.
Perché, di fatto, ultimamente non ho collezionato che carte di imbarco e incidenti di percorso; guardando le colonne del bilancio vincono i colpi di testa e le toppe messe qua e là.
Il risultato? Un patchwork. Come quelli di certe coperte sui divani in pelle nelle belle case di campagna fotografate sulle riviste e che da vicino hanno un motivo diverso in ogni quadrato, così come in ogni finestra c’è una storia. Non amo particolarmente i patchwork, ma le case di campagna sì. Soprattutto, amo le storie nelle finestre.
Infatti, eccomi come ogni sera, al netto di quella in cui ho incontrato il gabbiano, giorni fa, a guardare finestre conosciute e a cercarne di nuove.
A Berlino, come ogni lunedì, la coppia (che ho deciso essere una coppia di spagnoli) cena tardi.
Lui, come ogni lunedì, è senza maglietta, lei si alza da tavola per accendere una luce (che trovo sempre troppo forte). Un po’ più a sinistra le ragazze bellissime, non so se studentesse o modelle, stendono i tappetini per praticare un ibrido tra yoga, pilates, fitness mescolato. Il suono della loro risata sembra il canto perfetto per la musica che sento nell’appartamento accanto al mio.
Non ho mai visto chi la suona, ma mi piace pensare possa essere uno di quei ragazzi che una volta ho visto sul marciapiede mentre spingevano un pianoforte verticale. Al primo piano c’è l’unico appartamento con un grosso televisore e anche delle piante. Piante bruttine, a dire il vero: niente a che vedere con quelle della signora che ogni sabato mattina le innaffia con più amore che acqua in un balcone sospeso sopra una delle vie più trafficate di Milano.
Stasera, a Parigi, mentre aspetto al tavolino di Chez vous in Rue des martyrs, guardo il palazzo di fronte e - con sorpresa - mi accorgo che è la prima volta che vedo una facciata di mattoni in questa città. Beh, magari non proprio la prima… ma questa volta sono rimasta veramente colpita!
Al secondo piano c’è un ragazzo cui non darei più di venticinque anni, sebbene lo veda di spalle. Elegante, anche se a torso nudo, sta stirando in un modo che somiglia a una danza impacciata. Sparisce nella stanza come un gatto, giusto un attimo prima che io non sia più sola, come se la storia incorniciata da quella finestra fosse dedicata solo a me. A cena, un amico mi racconta del tentativo fatto di conversare con una ragazza attraverso il balconcino, tentativo finito male perché lei aveva le cuffiette e mentre cammino lungo la salita, continuo a pensarci e rido.
Poi mi chiudo nella mia stanza di questa sera. Non c’è il telefono, ma una radio che suona musica bellissima, le pareti blu e una ventola sul soffitto. C’è anche Insi, perché alla fine quegli skinny non li ho poi messi.
Tutte le finestre di fronte sono chiuse ed è un peccato, perché poche cose sono più belle di una donna che ride mentre parla al telefono.
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