La vita è quello che ti succede mentre sei impegnata a pensare al pezzo per Maremosso.
Giovedì. Sto seduta al mio solito tavolo, al solito bar sul solito barcone a Maybachufer, Berlino.
Le nuvole sono grigio scuro ma anche trasparenti, come di garza sottilissima su una superfice geometrica, luminosa e colorata di rosa e arancio Fruittella.
Pensavo che questo effetto da teatro di posa fosse gentilmente offerto dagli aperitivi dell'Ankerklause e invece altro non è che il tramonto di certe giornate berlinesi indecise, in cui l'umidità dell'aria si vede benissimo ma non si sente mai e, morbidissima, definisce i contorni delle case che, con l'avanzare del buio, sembrano quelle dei presepi o delle scenografie di cartone delle recite scolastiche.
«Se scrivo ciò che sento è perché così facendo abbasso la febbre di sentire.»«Soares va scrivendo minuziosamente, con la maniacale puntigliosità del contabile, il suo diario: grandioso zibaldone fatto di journal intime, di riflessioni, di appunti, di impressioni, di meditazioni, di vaneggiamenti e di slanci lirici che egli chiama Libro e che noi potremmo chiamare romanzo.» (dall'Introduzione di Antonio Tabucchi)
Il quarto giorno di detox è come il giovedì, un giorno ponte, un giorno incrocio. Oggi è il quarto giorno di detox. Ed è pure giovedì.
Le domande fluttuano e galleggiano, le preoccupazioni smettono di pungere e gli interrogativi sui massimi sistemi si minimizzano.
Tutto torna a girare lentamente, più simile al vortice dello scarico di un lavandino che alla forza ormonale del tagadà.
Perché poi lo scopo di queste lunghe sessioni passate a guardarsi dentro come si guarda l'oblò della lavatrice è anche farsi muovere dalle cose e, lentamente, togliersi di dosso il superfluo, non come la pelle dei serpenti ma come la pellicola che si fa con la colla Vinavil: con leggerezza, curiosità, sperimentazione.
Nel quarto giorno di detox mi concentro sui rumori di fondo, sulle risate delle persone, sui contorni materiali e immaginari di quello che ho intorno.
Dal mio solito tavolo guardo verso l'altra sponda e mi accorgo che c'è qualcosa di diverso e non è la peculiare colorazione che la luce dà ai palazzi: è proprio la presenza dei palazzi a essere diversa, più invadente e massiccia.
E lo è anche quella del bar dove prima facevo colazione, quello con i glicini, che oggi sembra il Capetown Cafè teletrasportato qui direttamente da Via Vigevano, Milano.
In una prigione di New Orleans si incontrano Zack e Jack, due americani colpevoli di piccoli crimini, e Bob, un italiano che ha commesso involontariamente un omicidio. I tre tentano l'evasione ma in breve si trovano a vagare senza punti di riferimento tra boschi e paludi. Trascorrono la notte in una locanda solitaria gestita da una ragazza italiana. All'alba Jack e Bob prendono strade opposte mentre Bob decide di rimanere.
Ci metto un po', ma mi accorgo che dei due salici che proteggevano come un sipario Paul-Lincke-Ufer sono rimasti solo i tronchi.
Mi sento come se mi avessero tolto non tanto il cappotto quanto la vestaglia, perché con la vestaglia si protegge la propria intimità e il canale era un luogo libero ma, a modo suo privato, proprio perché i salici ne erano la vestaglia, mentre l'acqua, i cigni e le birrette erano lo specchietto per chi sceglieva di andare lì e non altrove.
A proposito, dove sono i cigni?
"Saranno andati al Tiergarten, dato che è primavera e i turisti sono tutti lì" mi risponde Insi, che non vedo finché non guardo in alto, sul tetto dove a dicembre c'era una squadra di gabbiani a loro volta assenti. Accanto, ci sono gli altri mostri.
Mi chiedo se i cambiamenti in un paesaggio così familiare siano tanto lampanti non solo perché è giovedì, il quarto giorno di detox, ma anche perché è il momento di mettere in discussione il rapporto che ho con il passato e con l'abitudine di creare un aneddoto su qualsiasi cosa, anche la più banale. Abitudine che, mi viene detto, è poco utile rispetto a quella di costruire possibilità di creare aneddoti da cui trarre conclusioni e conservare nuove "cose". Siano esse ricordi, oggetti o sensazioni da voler portare nel futuro.
Torno a casa con l'idea di liberarmi di quello che nel presente non serve e che nel futuro sarà ancora meno utile quando, nella tasca della borsa di pelle color pavone comprata a Fez ormai dodici anni fa e che vorrei buttare, trovo la castagna matta che una sera mi regalò una signora sconosciuta che, terrorizzandomi, disse che perderla avrebbe portato sfortuna.
La borsa non è nemmeno più verde pavone e non ha più quella forma che fa pensare romanticamente a un viaggio su un treno a vapore.
Mi dico che forse è il momento di sfidare la superstizione, ma poi guardo fuori dalla finestra e, invece di spiare nelle finestre del palazzo color pistacchio al numero civico non definito, come mio solito in cerca di storie, lascio scivolare lo sguardo verso l'alto ed eccola, quasi nascosta dal camino, la testa di un animale conosciuto. Mi fissa, come se mi avesse riconosciuta. Non si sposta, insiste. È il rappresentante dei gabbiani che sembra volermi dire che a volte non serve cambiare abitudini, ma punti di partenza.
La borsa la userò per andare alle terme domani. Forse, se cambio orario, vedrò cose e persone diverse e, molto probabilmente, gli asciugamani non hanno bisogno di contenitori con una forma troppo definita. Alla castagna penserò in autunno.
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