Tracce di Tito

Almost famous: quando ero un giornalista musicale

Una vita fa, diciamo verso la seconda metà degli anni Ottanta, ho fatto il giornalista musicale. Erano altri tempi, direi per il giornalismo in generale. Forse un po' c'entrava anche Milano. Fatto sta che con quel che guadagnavo sono riuscito ad accendere il primo mutuo. So che oggi molti giornalisti musicali, soprattutto giovani, arrancano economicamente e mi dispiace, perché è un mestiere difficile, complesso.

Devi metterti in gioco, confrontandoti con un pubblico pronto a farti a pezzi. Magari a qualcuno può sembrare che scrivere stroncature sia semplice e divertente. Non è nessuna delle due cose. Sai subito che un disco non ti piace. Sai la pena che hai fatto ad ascoltarlo tutto, dal primo all'ultimo pezzo, per poterlo recensire seriamente. Ma ti è difficile capire perché non ti piace. Trovare le parole, per definire una cosa in fondo così istintiva. Devi dare una giustificazione, innanzitutto a te stesso. Sarà anche per questo che qui stronco poco. Ci riesco solo se la ragione mi appare subito lampante, delineata, decodificabile. Oppure, lo ammetto, se me la cavo con una buona battuta. E in quel caso, in fondo, vi sto dicendo di non prendermi troppo sul serio, perché davvero i gusti sono gusti.

Più facile è trovare i motivi per cui un album piace. Più facile farli accettare. Se è brutto, ti tocca giustificare di più. Se è bello, quasi basta questo: è bello, ragazzi, fidatevi dello zio Tito.

Penne musicali:

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Di Lester Bangs | Minimum Fax, 2008

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Però non è esattamente di questo che volevo parlarvi, partendo da quel mio vecchio mestiere. Ho imparato tanto in particolare intervistando gli artisti. Quelli famosi, davvero famosi. Sono stato dietro le quinte del concerto dei Metallica, a Parigi, quando presentavano i pezzi dell'album nero, per la prima volta dal vivo in Europa. Sono stato in camerino con i Beastie Boys. Sono stato in una stanza di un albergo londinese con Angus Young e Brian Johnson degli AC/DC. Ho scambiato due chiacchiere con Jimmy Page e Robert Plant dei Led Zeppelin, nell'attesa di un concerto a inviti superblindato...

Cose così, che mi è difficile dar da bere perfino ai miei figli, eppure sono vere. Ho visto che cosa significa essere famosi, esserlo davvero. Che cos'è il successo, quello autentico. Questo mi è servito quando sono passato al mestiere di fumettista.

So che al massimo potrò essere noto agli appassionati. Ma al successo, quella cosa lì, che non ti permette nemmeno di andare in giro da solo per strada, non potrò mai arrivare. E so anche che è meglio così. Ho una vita bella, lavorativamente parlando, che è anche una vita vera, in tutti i sensi.

Non chiedo di meglio, non chiedo di più. Anche oggi, mentre scrivo in una stanza d'albergo dove mi sono rifugiato durante il Napoli Comicon, dopo avere firmato autografi e concesso selfie, ma anche dopo avere spiegato a un barista, nemmeno troppo interessato, che mestiere faccio e perché c'è in giro tutta questa gente strana.

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