La redazione segnala

A cosa serve, oggi, Adolf Hitler?

Illustrazione digitale di Marta Punxo, 2023

Illustrazione digitale di Marta Punxo, 2023

A cosa serve, oggi, Adolf Hitler?
Qual è il significato storico e simbolico oggi attribuibile alla figura del dittatore tedesco a novant’anni dalla sua ascesa al potere?

Adolf Hitler è riuscito, molto più di qualsiasi altro personaggio del Novecento, a incarnare i caratteri fondamentali di assolutezza e imprescindibilità tipici di un attore della storia che trascende dall’insieme dei fatti di cui è stato protagonista, assurgendo a vero e proprio modello mitico, ovviamente negativo, per tutta un’epoca. Hitler è un’icona del XX secolo, un personaggio senza la cui presenza non è letteralmente possibile comprendere il cosiddetto “secolo breve”.

Il "caporale boemo" (benché fosse austriaco), "l’imbianchino" (con ironia per le sue doti artistiche), ma anche il "Führer del Reich millenario" (che durò appena 12 anni) o il "messia del popolo tedesco" (proprio lui, ateo), a causa dell’abominevole impatto che la sua politica e i suoi crimini hanno avuto nel plasmare la storia europea e occidentale è stato, nel corso della sua vita, definito in miriadi di maniere diverse. Dopo la sua morte, con la scoperta dell’estensione e intensità dei crimini nazisti, la lettura cronachistica e poi storica della sua vita lo ha molto velocemente cristallizzato in un simbolo che si potrebbe definire metastorico, facendone cioè una categoria a parte. Benchmark negativo e incarnazione del Male assoluto, Adolf Hitler esce dai libri di storia per divenire una figura retorica e una componente solida dell’immaginario di valori dell’occidente.
Una sorta di cippo di confine tra l’umano e l’inumano, una frontiera che non si deve più attraversare. In questo si può dire che Hitler cambia la storia, ossia ne modifica stabilmente gli elementi interpretativi segnando il senso stesso dell’analisi del passato dopo la sua venuta. Afferma icastico il filosofo tedesco Theodor Adorno a quattro anni dalla fine della guerra:

Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto barbarico

Theodor W. Adorno

A livello dialettico c’è addirittura chi teorizza questa trasformazione intellettuale da persona a concetto: un altro filosofo, il tedesco naturalizzato statunitense Leo Strauss, nel secondo dopoguerra conia il termine reductio ad Hitlerum. In pratica, sostiene Strauss, in una discussione di politica riesce a ottenere la vittoria chi dimostra l’affinità o la vicinanza delle idee del proprio interlocutore alle posizioni di Adolf Hitler. Il dittatore tedesco è una figura talmente indifendibile che trascina con sé anche il malcapitato così etichettato. L’accostamento, infamante, squalifica del tutto ogni argomento del soccombente, che appena apre bocca può essere zittito con un selvaggio “taci, tu che sei come Hitler!”. Più recentemente, negli anni ‘90, tra il serio e il faceto, l’avvocato e autore wikipediano statunitense Mike Godwin, nota:

Mano a mano che una discussione online si allunga, la probabilità di un paragone riguardante i nazisti o Hitler tende a 1

Mike Godwin

Hitler si trasforma da figura storica in figura retorica, entrando nella sfera dell’immaginario pubblico occidentale e di conseguenza globale come un invalicabile faro di malvagità, da tenere come bussola del male nella costruzione del senso stesso dei valori umani.

E oggi, è ancora così? Che peso specifico possono avere determinati confini retorici (e quindi anche il paragone con Hitler) in una società come quella attuale, che produce ogni giorno miliardi di terabyte di chiacchiere, spesso facendo del sensazionalismo una misura dell’efficacia della comunicazione e dove quindi sempre più si è spinti a fare a gara per valicare i limiti imposti dal supposto senso comune?

Aver fatto di Hitler un’icona dell’immaginario ha messo la lettura storica del dittatore a rischio di essere oggetto di modifiche anche consistenti, come accade a tutto ciò che definiamo “immaginario”. Se la storia, coi suoi fatti, rimane per lo più simile a sé stessa, la sua interpretazione e soprattutto la sua sublimazione dell’immaginario comune sono molto più soggette allo scorrere del tempo.

Mentre storici di tutto il mondo studiavano e dissezionavano la realtà del personaggio storico “Hitler”, la sua lettura pubblica rimaneva ancorata agli stereotipi riguardanti le sue manie, le sue deviazioni vere o presunte, il suo eloquio isterico, la pettinatura ridicola e quei baffetti che di per sé sono divenuti l’incarnazione di tutta una serie di significati, staccandosi addirittura dal corpo stesso del personaggio. Basti pensare all’immagine di copertina del fortunatissimo Lui è tornato di Timur Vermes, in cui bastano le parole del titolo a formare un rettangolino nero sotto l’inconfondibile zazzera hitleriana per ricreare la lugubre sagoma del dittatore. Tutto questo, in un contesto di immagini veloci e presentismo come quello in cui ci immerge l’attuale sistema di comunicazione, non può che rendere più fragile e traballante l’interpretazione di quello che realmente fu Adolf Hitler.

Averne fatto una sorta di tabù rischia oggi di esporre la figura immaginaria di Hitler al pericolo che corrono tutti i tabù, quello cioè di essere violati per gusto di trasgressione o per una mal concepita idea dei “limiti da passare” in nome della libertà di espressione.
I bambini provano un particolare piacere nel pronunciare quelle che gli adulti definiscono “parolacce”: gusto del proibito, emulazione, voglia di sentirsi grandi. Fino a quando, a forza di utilizzarle, queste parolacce stancano, perdono di mordente, annoiano, passano inosservate. Non possiamo permetterci di relegare Adolf Hitler al ruolo di “parolaccia della storia”.
Una prospettiva di relativizzazione sempre più spinta che porta molti a perdere di vista l’unicità del totalitarismo tedesco che fu, a differenza di qualsiasi altro regime, l’ideologia di pianificazione dello sterminio con criteri capitalistico-industriali: la violenza assurta a fine, e non mezzo, di potere.

Banalizzare la figura di Hitler liquidandolo magari a “semplice” pazzo furioso, a incidente della storia, relegandolo quindi tra i freak dello scorrere del tempo, come sempre più spesso capita di vedere, non è solo l’anticamera del suo sdoganamento e della sua “normalizzazione” come figura storica parificabile alle altre, ma è anche l’inizio della demolizione di quel paradigma del male che in qualche modo è servito da confine di umanità su cui buona parte delle società postbelliche ha cercato, almeno a parole, di fondarsi. Oggi Hitler, come immagine del male, è a rischio normalizzazione, e con esso è a rischio il senso stesso di società moderna e conscia di essere un insieme di individui, ognuno con i propri diritti, primo tra i quali il diritto di esistere.

In un memorabile passaggio della fortunata serie TV West Wing il presidente Josiah Bartlet (Martin Sheen) apostrofa una collaboratrice, integralista cristiana, per aver definito in un programma televisivo l’omosessualità un abominio. Lei si difende, dicendo: «non lo dico io, lo dice la Bibbia». Al che il presidente sbotta elencando i molti passaggi in cui il testo biblico impone punizioni sanguinose, comportamenti aberranti e leggi draconiane.

Il tempo passa, le fonti di autorità cambiano
, necessariamente. Pretendere che sia il passato, di per sé, a guidare le scelte morali dell’oggi, è operazione rischiosa e controproducente. Mantenere oggi Hitler all’interno del recinto delle icone mute, che dovrebbero di per sé dare senso e scopo a un sistema di valori vetusto, appare quantomeno rischioso. C’è un solo modo di salvare questo declino: rimettersi a interrogare questo personaggio tragico con la forza del metodo storico, per ridare senso e forza ai motivi per cui esso assurse un giorno ad archetipo del male, scoprendo con ogni probabilità che essi sono ancora tremendamente attuali.

In una realtà sempre più raccontata come immersa in un brodo di informazioni senza spazio né tempo la presenza di capisaldi che permettano di fissare una via, o quanto meno un sopra e un sotto, sono fondamentali. Maledettamente, a novant’anni di distanza, siamo costretti ad ammettere che Hitler “ci serve ancora”, ma non per quello che un po’ vuotamente si continua a ripetere sia stato. Perché dobbiamo interrogarci su che significato abbia oggi, su chi veramente sia o potrebbe essere oggi, Adolf Hitler.

Per saperne di più

Sindrome 1933

Di Siegmund Ginzberg | Feltrinelli, 2020

Il «mito di Hitler». Immagine e realtà nel Terzo Reich

Di Ian Kershaw | Bollati Boringhieri, 2019

Hitler e il potere dell'estetica

Di Frederic Spotts | Johan & Levi, 2012

Hitler e l'enigma del consenso

Di Ian Kershaw | Laterza, 2006

Potrebbero interessarti anche

I Leopard e il Gattopardo

In questi giorni felidi diversi agitano la scena internazionale

Illustrazione digitale di Ilaria Coppola, 2023

La fine della guerra del Vietnam

Gli accordi di pace di Parigi del 1973 hanno risolto solo in parte il conflitto, lasciando conti in sospeso

Cospito è sano, dunque può morire

Uno sciopero della fame che dura da cento giorni, contro il 41 bis. Il Ministro della Giustizia ascolterà?

La posta della redazione

La posta della redazione

Hai domande, dubbi, proposte? Vuoi uno spiegone?
Scrivi alla redazione!

Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto alla lista dei desideri devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto al carrello correttamente

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto alla WishList correttamente