La redazione segnala

Lucio Fontana, artista rivoluzionario

Concetto Spaziale. Attese © Bosc d'Anjou on Flickr

Concetto Spaziale. Attese © Bosc d'Anjou on Flickr

Uno potrebbe dire: “l’avrei potuto fare anche io”, che è poi una delle frasi più banali e scontate nel mondo dell’arte, soprattutto moderna e contemporanea. Intanto c’è l’idea e la progettualità della cosa e già lì, quindi, uno potrebbe rispondere: “perché non l’ha realizzata tu, allora?”. Si pensi ai “tagli” di Lucio Fontana, che tutti chiamano così, ma il cui vero nome è in realtà Concetto Spaziale-Attesa e Concetto Spaziale-Attese, a seconda che sulla tela ce ne sia solo uno o di più. La sua opera/simbolo, quella che l’ha fatto conoscere in tutto il mondo, ha una lavorazione che solo all’apparenza sembra facilissima.

Manifesti scritti interviste
Manifesti scritti interviste Di Lucio Fontana;

«Chi dice che per fare dell’arte occorra proprio fare “cose difficili”? E chi dice che occorra servirsi dei mezzi tradizionali? Quando, per la prima volta, l’uomo ha sentito il desiderio di dipingere non aveva certamente a sua disposizione un pennello o una tela.

L’artista nato a Rosario, in Argentina, nel 1899 e morto a Comabbio, in provincia di Varese, il 19 febbraio del 1968, iniziò a lavorarci nel 1958 in maniera meticolosa, come era solito fare. Tutti possono recuperare un taglierino Stanley – la marca che utilizzava lui – questo è vero, e tutti possono comprare una tela, le dimensioni poco contano, ma provateci voi a tagliarla in quel modo. Con grande delusione, noterete che il taglio si aprirebbe eccessivamente facendovi ottenere una superficie molle e cascante. A lui, tutto questo, non accadeva. Il motivo principale? La sua tecnica e i suoi accorgimenti tutt’altro che banali. Fontana usava soltanto una tela di lino belga, faceva una stesura di colore bianco di cementite sul recto e sul verso e vi aggiungeva poi delle resine alchidiche per garantirne la resistenza e la versatilità. Il telaio, invece, lo fissava con dei chiodi e punti metallici per tenerlo in tensione.

Ed è a quel punto che tagliava.

Non amava certo farlo in presenza di persone e a tal proposito ci viene in aiuto Ugo Mulas (1928-1973) a cui fu molto legato. Nel libro del grande fotografo che uscì postumo, La Fotografia (Einaudi, 1973), viene ricordato il momento in cui chiese a Fontana di poter assistere a un suo “taglio” per immortalarlo, e ne vengono riportate le parole.

"Se mi riprendi mentre faccio un quadro di buchi – gli disse - dopo un po' non avverto più la tua presenza e il mio lavoro procede tranquillo, ma non potrei fare uno di questi grandi tagli mentre qualcuno si muove intorno a me. Sento che se faccio un taglio, così, tanto per far la foto, sicuramente non viene... magari, potrebbe anche riuscire, ma non mi va di fare questa cosa alla presenza di un fotografo, o di chiunque altro. Ho bisogno di molta concentrazione. Cioè non è che entro in studio, mi levo la giacca, e trac! faccio tre o quattro tagli. No, a volte, la tela, la lascio lì appesa per delle settimane prima di essere sicuro di cosa ne farò, e solo quando mi sento sicuro, parto, ed è raro che sciupi una tela; devo proprio sentirmi in forma per fare queste cose"

Mulas non si arrese e continuò imperterrito nel suo obiettivo. Frequentava spesso il suo amico a Milano e ogni volta che voleva, alzava il telefono, lo chiamava e andava nel suo studio “senza cavalletto, senza fari, cosa che non rendeva complicata la faccenda, e fotografavo”. “Fino a quel momento l'avevo fotografato e basta, ora volevo finalmente riuscire a capire cosa facesse”, scrive nel libro. “Forse fu la presenza di un quadro bianco, grande, con un solo taglio, appena finito. Quel quadro mi fece capire che l'operazione mentale di Fontana (che si risolveva praticamente in un attimo, nel gesto di tagliare la tela) era assai più complessa e il gesto conclusivo non la rivelava che in parte”.

Vedendo un quadro di buchi, o un quadro di tagli, è facile immaginare Fontana mentre fa il taglio con una lama o i buchi con un punteruolo, ma questo non lascia certo comprendere l'operazione che è più precisa. “Non è solo un’operazione – disse Mulas - ma un momento particolare, un momento che capivo di dover fotografare”. L’azione vera e propria, infatti, spingeva l’artista su un piano spaziale che andava oltre la tela stessa, al momento in cui il taglio non era ancora cominciato e l’elaborazione concettuale era invece già tutta chiarita. Una vera e propria “attesa” o delle “attese”, volendo citare il titolo esatto di quelle opere, per Mulas che riuscì per primo a capire quanto quell’azione del taglio sia centrale nell’arte di Fontana e quanto la tela non ne sia che una mera conseguenza.

Fontana – che fu prima di tutto un grande scultore (si era diplomato all’Accademia della Belle Arti di Brera con il grande Adolfo Wildt) - rimase fermo nella sua categorica decisione di non farsi riprendere nell’atto, una presa di posizione, la sua, che  ricorda quella di chi ha la ricetta di un qualcosa di leggendario (la Coca Cola o la Nutella) e non vuole svelarne gli ingredienti segreti, ma accettò comunque di farlo per il suo amico “per finta”.

Il resto è storia, perché Mulas fu l’unico ad averlo fotografato in una sequenza di scatti memorabili, esposti di recente alla mostra che gli è stata dedicata a Le Stanze della Fotografia – il nuovo spazio espositivo sull’Isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia – intitolata, non certo a caso, L’operazione fotografica.

Un’operazione nell’operazione, quella di Mulas con Fontana, che ha lasciato il segno. “Fatta questa foto abbiamo tolto la tela e sostituito con un quadro finito fatto di un solo grande taglio. Fontana ha messo la mano nel punto terminale del taglio e in una delle foto che ho fatto alla sua mano è mossa come se avesse proprio in quel momento completato la corsa: non si capisce che quella è una foto fatta apposta dove il taglio preesiste”.

E il mistero, in qualche maniera, continua.

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