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I miei ricordi del Giappone, disconnessa e felice

© Ilaria Pilar Patassini

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Una macchina fotografica automatica – una Canon modello Prima Super 28 – giaceva fino a pochi giorni fa in uno dei cassetti della scrivania, in modalità imperitura e analogica. Facendo ordine l’ho ritrovata e mi sono ricordata che dentro forse avrebbe dovuto ancora esserci un rullino non sviluppato, un’ignota e potenzialmente deflagrante cellula dormiente – che ad aprire certe scatole o a mettere a posto le librerie puoi trovarci Pandora a braccetto con tutti i mostri in fila per due col resto di nulla, è un dato di fatto, non un’illazione.

Ho provato ad aprire la Canon ma, non riuscendoci (per timore di romperla non ho forzato), a mio rischio e pericolo l’ho portata dunque da Gianni che qui ad Alghero gli apparecchi fotografici come quelli li tiene in vetrina, in negozio, tra gli oggetti non in vendita del suo piccolo museo del Novecento. Il rullino c’è, mi ha detto, gli ho chiesto di svilupparlo raccomandandomi con un anticipato pudore di non sbirciarne neanche mezzo contenuto perché davvero non sapevo cosa potesse contenere (magari posture scomposte in stato di ebbrezza giovanile per cui l’immagine rispettabile che mi sono sudata poteva andarsi a fare un giro e non disturbarsi a tornare).

Quando sono andata a ritirare le fotografie avevo qualche farfalla nello stomaco come quando aspettavo una lettera cartacea o come quando, in generale, si aspettava e basta – un disco, i mandarini a Natale, un film, un bacio, i primi fichi di giugno, il diario nuovo a inizio scuola, il resoconto di un amico tornato da un viaggio o da un concerto dove non ti avevano dato il permesso di andare.

© Ilaria Pilar Patassini

La gran parte delle immagini era bruciata ma del resto si trattava di un rullino rimasto lì dentro dal 2005, sballottato da più traslochi. Erano le – brutte – fotografie delle due settimane a Tokyo dove sono stata in tournée con lo spettacolo Le Trachinie di Sofocle messe in scena con l’adattamento inglese di Ezra Pound tradotto poi in italiano da Giancarlo Nanni (regista e drammaturgo, scomparso poi nel 2010 e, a ragione, molto compianto). Nel ruolo di Deianira c’era Manuela Kustermann e la produzione originale era del Teatro Vascello di Roma. È stato uno spettacolo dove ho lavorato per un paio di anni e che mi ha permesso di fare esperienze importanti come fu quella a Tokyo. Ricordo bene che la prima cosa che mi venne in mente fu di essere atterrata su un altro pianeta e che andare su Marte sarebbe stato meno interessante.

Queste immagini venute dal passato mi hanno raccontato a schiaffo moltissime cose, ma la prima fra tutte, la fosforescente ultima sintesi, è stata come nel giro di pochi anni ci sia quasi mutata la genetica: gestione del lavoro, relazioni, confini, competenze, comunicazione, concezione del riposo, percezione di e del sé. Tutti questi ambiti noi oggi li rincorriamo senza apparentemente avere più l’autonomia e gli strumenti atti a comprenderli e sceglierli per incidere sul perseguimento di un reale benessere.

Nel 2005 in Giappone non avevo lo smartphone o WhatsApp, ero naturalmente irreperibile, disconnessa, nessuno se ne sorprendeva o me lo recriminava, nessun fidanzato, nessun sollecito di invio di materiale di sabato mattina, nessun no reply da catene di franchising o dalla banca, nessuna geolocalizzazione attiva o spunta blu ad additare la mia mancata immediata risposta. Invece, ancora presente, era una centratura, se non del tutto umana almeno umanizzata, uno stato in luogo persistente, dove tenere in regime protetto e sanificato il metabolismo dei sensi e della memoria, poter chiamare casa tre minuti ogni quattro giorni a notificare la mia entusiasta presenza sulla Terra o mandare un SMS, certo che sì, ma al costo di dieci caffè.

© Ilaria Pilar Patassini

Il punto è che non è solo perché avessi 18 anni in meno e meno responsabilità che di quel viaggio e di quel tour io ricordo tutto.
La ragione sta invece nel fatto che avevo l’attenzione allenata, scevra dalla dipendenza di cattiva serotonina prodotta dalla gran mole di “location instagrammabili” a un passo da me; dal sollecito del social media manager a inviare un reel; dall’ansia di stare sul pezzo; dal martellamento bulimico delle notizie in tempo reale; dallo sdoganamento del refuso, non più eccezione ma quotidianità; dal sovraffollamento mentale figlio della sciagurata contemporanea strutturazione di un umanoide autoportante e solo, per forza felice e per forza realizzato proprio perché «bisogna bastare a sé stessi». Siamo diventati approssimativi per necessità, isolati e distratti ma in compenso molto bravi a fare le fotografie, affaticati sopravviventi sul confine labile del burnout, professionisti poco liberi ma disciplinati e interdisciplinari, h24.

Nella stortura dell’inquadratura, nel mio essere vestita discretamente male, ho ritrovato i giorni dell’approfondimento e dello “stare”. Di quel viaggio non ho nessun video, nessuna traccia online, mi restano solo queste foto sfocate, eppure guardandole ho subito ricordato a memoria i versi scritti in aereo mentre eravamo in volo sopra la Siberia, il rituale della cena offerta dalla compagnia teatrale giapponese che ci ha ospitati (uno dei migliori pasti della mia vita), i ciliegi in fiore – rivedo il viale, adesso, come essere dentro un quadro di Monet, l’incrocio a Shibuya con ragazze in kimono spaziali 2.0, i tizi con indosso il completo nero da ufficio e in mano la ventiquattrore, che dormivano con la testa poggiata sopra una sorta di flipper dove non si vinceva nulla, si alienavano e basta – monetina, manopola, cadute di biglie grigie e ciao, non ci sono più –, poi lo shock del wasabi e del primo sushi consumato seduta su una cassetta di legno appena fuori un bugigattolo accanto al mercato del pesce, il tizio che attraversava la strada con una camminata sonante, una catenella gli univa le due gambe del pantalone all’altezza del ginocchio, le vasche da bagno fumanti all’ultimo piano del nostro alberghetto fuori dal circuito turistico, la modalità di applauso durante lo spettacolo anche questa inserita nella sacralità protocollare verso l’ospite, alcuni tra il pubblico tenevano la mascherina in viso, non sia mai un colpo di tosse accidentale potesse contagiare il vicino di posto.

© Ilaria Pilar Patassini

Non faccio una vacanza dal 2017, una vacanza vera intendo, non i due tre giorni sbocconcellati, tra poco partirò una decina di giorni per qualche concerto, non è una vacanza. Sono iperconnessa ininterrottamente da sei anni.
Spero in un viaggio d’inverno, a riprendermi un’osservazione senza testimonianza, a covare lucidità e canzoni, perché quello che queste fotografie mi hanno letteralmente sbattuto in faccia è che nel 2005 ero maledettamente più intelligente, avevo più capacità di analisi e di concentrazione, non saltavo le righe quando leggevo i romanzi, non mi fermavo ogni tre per due a controllare le notifiche del telefono o aggiornare i post sui social network.

Tornare intera e difendermi dalla parcellizzazione delle mie potenzialità è il mio buon proposito per l’anno a venire, sottrarmi, istituire giorni disconnessi. Ci sono ormai molte pubblicazioni su questo argomento, soprattutto a seguito degli anni del Covid. Per darmi motivazione e alfabeto ho ordinato nella mia libreria algherese Disertate di Franco “Bifo” Berardi, suggeritomi da un articolo di Paolo Bosca segnalato su Radio3. Disertare mi è parso il giusto verbo, la buona rivolta, l’infinito che dobbiamo iniziare a saper declinare. Credo andrò poi anche a Bosa in visita dal mio professore di storia e filosofia del liceo, romano ammalato di Sardegna, durante le sue lezioni ogni tanto inseriva dei racconti sull’isola, sulla cultura della pastorizia e del tempo che si aspetta. Sarà una buona occasione per tenere a battesimo il primo dei miei giorni disconnessi, ajò.

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