La redazione segnala

Combattere il cambiamento climatico attraverso l'Arte

Terra senza terra
Terra senza terra Di Ilaria Pilar Patassini

“Terra senza terra” è il nuovo album Ilaria Pilar Patassini, cantautrice e interprete con quattro album di inediti alle spalle ampiamente riconosciuti dalla critica. Si consolida con questo lavoro il sodalizio con il chitarrista, arrangiatore e produttore artistico Federico Ferrandina, già presente nel precedente album “Luna in Ariete”.

Nel rituale della sera, poco dopo cena, quando lo convinco a prepararsi per andare a dormire, Tancredi pesca qualcosa dalla sua libreria, si mette sotto le coperte e mi aspetta per uno dei momenti migliori della giornata, quel corollario fatto di lettura e abbracci. Uno dei suoi libri preferiti è Canto di Stagione (di Jane Yolen e Liesel Jane Ashlock, Emme Edizioni,2015), un racconto in versi sullo scandirsi dei cicli stagionali. Le pagine hanno illustrazioni bellissime che lui si guarda incantato e zitto prima di dirmi solo “gira” e passare oltre. Mi capita, ormai da mesi, di leggergli questo libro o altri simili e di sentire una grande angoscia data dal fatto che quello che sta lì scritto e disegnato, a breve non sarà più così, anzi, già non lo è più.

Qui a Roma, ora, a fine ottobre, ci sono in media 25 gradi, e sarebbe illogico pensare che questo sconvolgimento non sia già conseguenza di eventi estremi e violenti. Mi sto chiedendo sempre più spesso, quindi, come io possa preparare mio figlio, un bambino di cinque anni e mezzo, al fatto incontrovertibile che quello che sta imparando su questi libri e guardando sui documentari naturalistici - che lo meravigliano e affascinano tanto – sta già subendo un cambiamento radicale e in buona parte è destinato a estinguersi.

Canto di stagione. Ediz. illustrata

Un libro in rima illustrato di grande formato per bambini dai 4 anni. Un libro per tutti, grandi e piccoli, per scoprire insieme la magia del mondo che cambia e si trasforma mese dopo mese. Una storia che parla di natura, animali, trasformazioni. Il silenzio surreale dell'inverno, la brezza tiepida in primavera, l'acqua che rinfresca l'estate, la danza delle foglie in autunno.

Non è facile trovare una modalità giusta di comunicazione se io stessa sento un senso profondo di smarrimento e preoccupazione, che invece non voglio trasmettergli. Da tempo sto riflettendo su come agire con lui, quali argomenti usare per arrivare ad avere e restituire una lettura della realtà che possa essere oggettiva ma non totalmente sterile e catastrofista, che implichi una possibilità di futuro. Al momento, a Tancredi mi limito a dire che lui e i suoi amici dovranno diventare dei veri esperti della natura, che dovranno conoscerla bene, molto meglio di noi, per proteggerla. Mentre gli dico questo in realtà spero che i ventenni che stanno protestando ora si moltiplichino e che caccino a pedate questa pletora di potenti – nella quasi totalità dei casi sono maschi, è bene rammentarlo – asserviti alla stupidità dell’hic et nunc e a quella del parametro del “righello” (mi si perdoni questa caduta di corona ma, ahimè, è un fatto).

Anche qui però nutro molti dubbi, per due ragioni: la prima segue il famoso principio della rana bollita di Noam Chomsky per il quale, passata la fase in cui il “calduccio” ad libitum – metaforico e letterale – ci divertiva, adesso invece inizia a tramortirci. Una rivoluzione dovrebbe quindi arrivare prima della fase successiva, quella in cui potrebbero venire a diminuire le nostre capacità reattive; il secondo motivo che minaccia la mia speranza sta nella progressiva scomparsa della classe media e della media borghesia: come lo attuiamo un cambiamento repentino e strutturato se manca la manovalanza intellettuale delle rivoluzioni, il collante di ragione e comunicazione tra l’intelligentsia e la massa? L’iconografia ci racconta che è il popolo a muovere le rivoluzioni, ma la storia ci insegna che non è esattamente così, la miccia viene accesa da quella borghesia che non può “sedersi”, che ha avuto cioè il privilegio di studiare ed esercitare un umanesimo interessato alla giustizia sociale, senza avere una reale rendita di posizione. Oggi però il divario crescente tra ricchi e poveri lascia un vuoto sempre più importante nel mezzo. Più questa forbice si allarga, meno diritti vengono garantiti e meno diritti vengono garantiti, meno sarà possibile arginare la corsa alle emissioni. Le due cose sono strettamente correlate.

Da queste riflessioni è arrivata una parziale risposta ai miei interrogativi: la buona battaglia da compiere è quella per i diritti di tutela per le minoranze e per quelli alla salute, allo studio, alla sicurezza, al lavoro dignitoso, all’apprendimento di una nuova economia domestica che preservi le risorse terrestri, la buona battaglia è ripensare i gesti quotidiani, non foraggiare le grandi aziende, privilegiare la bottega, sprecare meno. Parte di questa consapevolezza è stata prima presa a pugni e poi, a una seconda lettura, invece rimodellata e corroborata dalle trentotto, esplosive pagine del saggio E se smettessimo di fingere?, di Jonathan Franzen (Einaudi, 2019).

E se smettessimo di fingere? Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica

Da tempo Jonathan Franzen contempla la possibilità che l'apocalisse climatica avvenga nel corso della sua vita. Segue le vicende del cambiamento climatico da almeno trent'anni, e ne ha anche scritto. A suo avviso l'interesse del movimento ambientalista per tale cambiamento aveva senso negli anni Novanta, quando sembrava ancora possibile impedirlo.

Quando sono state pubblicate – per la loro metà – sul New York Times, hanno fatto alzare un vespaio, anche tra gli ambientalisti. In sostanza Franzen, da sempre attento alle questioni ambientali, scrive che la battaglia contro il cambiamento climatico è ormai persa, che poteva essere vinta trenta anni fa ma adesso non più, e che prima lo accettiamo prima possiamo cercare di iniziare a strutturare un altro tipo di società; che non ha più senso mettere al centro delle battaglie ambientaliste il tema del riscaldamento globale, tralasciando tutte le altre azioni che invece devono essere attuate per preservare alcuni habitat e la nostra sicurezza: le ultime temperature “normali” registrate sono del 1993, da lì in poi è cambiato tutto, a una velocità che ha sbancato ogni previsione. L’adattamento lento, così come accaduto finora per ogni evoluzione radicale, non è più possibile. Scrive Franzen:

In tempi di caos crescente, la gente cerca protezione nel tribalismo e nell’uso delle armi, invece che nello stato di diritto, e la nostra migliore difesa contro questo tipo di distopia è mantenere le democrazie funzionanti, sistemi giuridici funzionanti, comunità funzionanti. Sotto questo aspetto, ogni movimento verso una società più giusta e civile può essere considerato un’azione significativa per il clima.

Cosa può fare l’Arte in tutto questo? Che contributo può fornire per dipanare il caos? L’Arte è tale in quanto non riproduzione pedissequa ma interpretazione e re-interpretazione costante dell’esistente e della sua direzione. Gli artisti possono compiere tre azioni: restituire all’Arte il ruolo politico al quale ha abdicato da qualche decennio, produrre opere – visive, musicali, performative, teatrali, architettoniche, letterarie – di analisi e denuncia, e da ultimo ma non per ultimo, fornire gli strumenti dell’immaginario, aiutare chi già lo sta facendo a significare quanto le materie umanistiche siano fondamentali per poter fornire alle nuove generazioni la capacità di una visione, di una percezione alla quale tendere, di una bandiera che deve per forza essere universale perché la siccità, gli uragani e le migrazioni se ne infischiano dei confini. L’Artista deve usare la libertà di cui dispone e la capacità di anticipare il futuro, farsi un po' guitto e un po' patriota e mettere alla berlina i turbocapitalisti del corporativismo e delle multinazionali. La natura umana purtroppo non cambierà ma la creatività – umana anch’essa – ha una forza di coesione enorme ed è una delle poche cose che può realmente denudare i re – minuscoli non a caso – e far diventare comunità un uditorio.

Da pochissimi giorni è uscito il video della canzone che ha dato il titolo al mio ultimo album, Terra senza Terra. Per guardarlo, cercate su YouTube il titolo della canzone. Il testo l’ho scritto in aereo, qualche anno fa, nel sollievo del limbo, nel regno degli apolidi – ricordo perfettamente momento e umore – stavo cercando un’assoluzione, una visione di terra vergine ed è venuto fuori il cielo, l’orizzonte un po' indefinito e gassoso delle nubi medio basse, a contrasto con le pennellate rade dei cirri allegri poco più in alto, in salvo dalle cose terrestri. Il video è stato girato in Sardegna, in luoghi che ti fanno dire “c’è ancora spazio, ancora fiato”. Mi sono lasciata dietro le quinte, di me non c’era bisogno, dovevo solo dare poco fastidio alla meraviglia intorno, ingaggiare una lotta impari contro le vertigini. Mi sono commossa spesso durante la lavorazione di questo video, per l’innocenza di tutta questa Bellezza, del canto degli uccelli al tramonto, dei profumi della macchia mediterranea che lì ancora persistono.

Esiste molto da imparare su nuove forme di armonia futura, e anche in fretta, ma a libri divulgativi preziosi come La sesta estinzione (Elisabeth Kolbert, Neri Pozza, 2014), non proprio viatico di serenità, va affiancato altro. Alla nozione va messa accanto la Poesia, altrimenti è come portare avanti la tecnologia senza la civiltà.

Scrivi perché nulla è difeso e la parola ‘bosco’
trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli
perché solo il coraggio può scavare
in alto la pazienza
fino a togliere peso
al peso nero del prato

(Antonella Anedda, da Notti di pace occidentale, Donzelli Poesia, 1999)

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