Bassa marea

L'arte di stare in coda

Noi italiani siamo per natura restii o incapaci di allinearci secondo un ordine prestabilito: chi arriva primo sta in testa, gli altri alle sue spalle.

La coda lunga 10 chilometri per rendere omaggio alla regina Elisabetta prima del funerale non poteva che accadere in Gran Bretagna, il Paese che più rispetta l’idea di mettersi in fila e restare in paziente attesa del proprio turno.
Per noi italiani, ammettiamolo, sarebbe più difficile sottoporsi a un simile esercizio, non solo perché non abbiamo figure unificanti che hanno retto per settant’anni come simbolo nazionale, ma perché siamo per natura restii o incapaci di allinearci secondo un ordine prestabilito: chi arriva primo sta in testa, gli altri alle sue spalle.

Basta vedere come gli inglesi si dispongono alla fermata dell’autobus: quando sono venuto a vivere a Londra ho impiegato un po’ a comprendere che la gente in attesa del bus non era sistemata a caso, bensì rispettando l’ordine in cui erano arrivati, per cui quando l’autista apre lo sportello non si forma una massa indistinta di corpi per entrare. È una caratteristica encomiabile: fa immediatamente capire che da queste parti le regole vengono prese sul serio.
Naturalmente anche altri popoli sono famosi per la capacità di mettersi in coda e restarci ore, se non giorni come hanno fatto i sudditi della corona britannica per dare l’ultimo saluto alla sovrana: quando vivevo in Russia, anzi in Unione Sovietica, com’era chiamata al tempo del comunismo, si formavano code dappertutto.
La ragione, tuttavia, non è che i russi somigliano agli inglesi: casomai somigliano più agli italiani, specie per quanto riguarda l’arte di sgomitare.

Il motivo è che, nella drammatica penuria di generi di prima necessità durante il declino che portò al crollo dell’URSS, appena si spargeva voce che in un certo negozio era arrivato il salame, o il latte, o le galosce per l’inverno, o i quaderni di scuola o qualsiasi altra cosa, la gente si metteva in coda davanti all’ingresso, anche con una bufera di neve.
Spesso non era nemmeno chiaro “cosa” fosse arrivato nel negozio in questione; e abbastanza di frequente, quando uno arrivava alla cassa, il prodotto desiderato era finito.
Talvolta bastava che un passante si fermasse per un po’ davanti a un portone, perché un secondo passante si mettesse in coda alle sue spalle, poi un terzo, un quarto e così via.
“Scusi, cittadino, cosa vendono qui?” chiedeva l’ultimo arrivato.

“Oh, niente, sto solo aspettando un amico”, rispondeva magari il tizio in testa alla fila.
Ma gli altri si guardavano di sottecchi, qualcuno commentava, “come no!”, qualche altro sussurrava “vuole fare il furbo, ma non ci frega”, e la coda continuava ad allungarsi, allungarsi, allungarsi, come in un racconto di Gogol.

Il cappotto
Il cappotto Di Nikolaj Gogol';

Akakij Akakievic Basmackin è un mite impiegato, deriso dai colleghi, copiatore di lettere ad un ministero, così povero da dover risparmiare un intero anno per potersi far fare un nuovo cappotto dal sarto. La felicità di sfoggiarlo dura un solo giorno: la sera stessa viene assalito e derubato del suo bene prezioso.

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