La vera forza identitaria degli italiani non sta nello Stato, nella nazione, ma nelle città di appartenenza. L'appartenenza passa attraverso l'aspetto del comune - che è la nostra grande invenzione politica – e non della nazione, che invece ci è venuta maluccio
Curzio Maltese, che ci ha lasciati ieri dopo una lunga malattia, era nato sessantatré anni fa a Sesto San Giovanni.
La riflessione che riportiamo in apertura, tratta da un’intervista del 2007, dovrebbe essere interpretata partendo da questo dato.
“Un proletario assetato di bellezza”, l’ha definito Gad Lerner ieri, rievocando l’amico perduto e mettendo così l’accento sulle sue origini operaie, mai rinnegate.
Dalla “Stalingrado d’Italia” Maltese aveva senz’altro ereditato una vis orgogliosa e battagliera che, nel corso di una vicenda giornalistica lunga più di quarant’anni, ne aveva reso attesi e temuti al tempo stesso gli interventi sulle prime pagine dei quotidiani.
Attesi, da tutti coloro che nei suoi corsivi sapevano di poter trovare una sponda lucidissima e libera da pastoie di ogni genere.
Temuti, dai tanti politici o personaggi pubblici che nei suoi corsivi erano raccontati con penna elegante (“Potevi non essere d’accordo con una sua idea, ma mai con un suo aggettivo”, gli rende omaggio oggi l’amico e collega Massimo Gramellini) ma senza far sconti a ipocrisie e ideologismi.
Curzio Maltese ha utilizzato, rielaborato e ampliato il materiale immenso dei reportage realizzati per “la Repubblica”, trasformando una “inchiesta” sulle città italiane in uno straordinario documento che riconduce il lettore alle radici di un malessere non soltanto politico o civile (forse più facile da riconoscere), che ha a che fare con l’amministrazione dei luoghi in cui vive: le città.
Le radio libere erano state negli anni Settanta e Ottanta la palestra nella quale il giovane Maltese aveva messo a punto un tono peculiare, quella voce – che poteva naturalmente esprimersi anche attraverso una penna, più che attraverso un’ugola - grazie alla quale si sarebbe poi fatto conoscere da moltissimi lettori: è forse a quell’essere cresciuto senza padroni che si deve l’indipendenza che avrebbe guidato il giornalista in tutte le sue successive collaborazioni.
Da quella prima esperienza il giornalista passò poi a raccontare di sport. E lo fece benissimo.
Sapeva, Maltese, che in Italia più che negli altri paesi, una partita di calcio non è mai solo una partita di calcio: chi vuole avere un’idea del modo in cui si può raccontare un intero Paese, le sue passioni e le idiosincrasie, i caratteri e le paure, dicendo di un semplice fatto sportivo, recuperi il suo pezzo dedicato a Franco Baresi, un articolo divenuto proverbiale che “andrebbe fatto studiare in tutte le scuole di giornalismo”, com’è sempre Gramellini a ricordare.
La notte, il Corriere dello sport, La Stampa, Domani… ogni giornale che è stato arricchito dagli interventi di Maltese ne è rimasto in qualche modo connotato, ma è certamente su Repubblica che quella firma brillò con tale luce da proiettare l’autore nel firmamento dei grandi commentatori politici degli anni Novanta. Erano quelli gli anni, ovviamente, nei quali andava disegnandosi la traiettoria politica di Forza Italia, che il giornalista avrebbe seguito nel suo farsi, capendone a fondo il pericoloso potenziale grazie a un’intuizione rimasta ineguagliata e che del giornalismo di Curzio Maltese resta forse la più originale.
Silvio Berlusconi fu infatti a lungo bersaglio privilegiato dei corsivi di Maltese, fra i primissimi ad intuire come l’imprenditore televisivo avrebbe ad un certo punto fondato un Partito.
Il pericolo che Maltese seppe intuire in quell’avventura politica non derivava da un’antipatia ideologica (pure vivissima), quanto dalla profonda consapevolezza che l’Italia fosse un Paese privo degli anticorpi necessari a disinnescarne gli esiti più nefasti, soprattutto in termini di partecipazione alla vita pubblica.
Un Paese, l’Italia, che in troppe occasioni si è mostrato ansioso di cementare la propria fragile identità nazionale attorno a “massimi comuni denominatori” troppo schematici, manicheismi cui la televisione commerciale aveva spianato la strada a partire dagli anni Ottanta.
Il “ghe pensi mi” di cui Berlusconi è stato il massimo alfiere chiamava a una generale deresponsabilizzazione, un “liberi tutti” che Maltese intuì essere il peccato originale (e tuttora irredimibile) di un popolo – appunto – capace di esprimersi come tale più nelle piazze e attorno al campanile che non nelle urne elettorali o in una sana partecipazione collettiva alla vita politica.
Quella passione politica di Curzio Maltese divenne a un certo punto esperienza all’Europarlamento: nel 2014, il giornalista si candidò alle elezioni europee come capolista nella circoscrizione del nord-ovest italiano per L'Altra Europa con Tsipras a sostegno della Coalizione della Sinistra Radicale per Alexīs Tsipras Presidente della Commissione europea, ottenendo quasi 32000 preferenze. Giusto coronamento di un percorso di vita che non interpretò mai il momento intellettuale e quello politico come spazi distinti o troppo lontani.
Ogni omaggio deve chiudere con i titoli di coda e, nel caso di questo nostro piccolo omaggio a un grande giornalista, ci pare giusto lasciar scorrere nei titoli un’altra sua frase tratta dall’intervista del 2007 con la quale abbiamo aperto. Qui c’è tutto Maltese nel suo nitore aforistico e polemico, nello struggimento un po’ pasoliniano per un’Italia irrimediabilmente perduta e nel suo amore per il cinema, quello vero, quello che andava goduto in sala e non davanti a uno schermo LCD chiusi nelle proprie privatissime stanze.
Venezia è una città perfettamente conservata ma è morta: non è assurdo che in una città che ospita una mostra cinematografica famosa in tutto il mondo non sia rimasta nemmeno una sala cinematografica?
Vero. Verissimo. Le sale cinematografiche somigliano in fondo alle lucciole di cui Pasolini cantò la scomparsa: quando quelle luci si spengono, nei Comuni d’Italia, è segno che qualcosa è andato storto.
Curzio Maltese non ha mai smesso di ricordarcelo e – non fosse che per questo – dovremmo essergli grati.
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