Un uomo cerca il proprio destino e nessun altro. Volente o nolente. Qualunque uomo avesse la possibilità di scoprire il proprio fato, e pertanto scegliere un percorso opposto, alla fine arriverebbe soltanto alla medesima resa dei conti
Ci ha lasciati a 89 anni, Cormac McCarthy. Ne avrebbe compiuti 90 a luglio, ma ha fatto in tempo a scrivere gli ultimi due romanzi, Il passeggero (già edito da Einaudi, qui) e Stella Maris, che arriverà nei prossimi mesi. McCarthy è stato uno scrittore enorme, ingombrante perché solo grazie e attraverso la sua scrittura e le sue storie è riuscito a diventare uno dei più importanti. Anche per i profani, per chi non ha mai letto un suo romanzo, quando si parla di Non è un paese per vecchi o della Strada, ecco drizzarsi le orecchie e dire: è lui.
Nel cuore di una fredda notte del 1980, Bobby Western indossa la sua muta da sommozzatore e si tuffa nelle nere profondità della baia del Mississippi. Laggiù scorge il profilo di un aereo con nove corpi in cabina, gli occhi vuoti e le braccia protese verso un gelido abbraccio. Che fine ha fatto il fantomatico decimo passeggero? Quali oscure macchinazioni cela la sua scomparsa?
C’era un filone che preferiva, quello western, o forse non la preferiva ma ci si trovava soltanto bene, era il suo territorio. Come in Meridiano di sangue, la sua era un’epica, del confine, della frontiera, della violenza: nelle sue parole, nel suo stile asciutto e appuntito, i mondi che si creavano erano borderline quanto i suoi personaggi. Nel suo romanzo più filosofico, Oltre il confine, questa poetica dell’attraversamento, di limiti da superare che non sono sulla carta, ma sono il disequilibrio dei suoi protagonisti, questa poetica emerge tutta insieme.
Come Billy Parham, McCarthy seguiva le tracce di qualcosa di pericoloso e mostruoso – nel caso di Oltre il confine era una lupa vorace che faceva strage di bestiame –, salvo poi accorgersi di essere molto più simile al mostro che a tutto il resto. Salvo poi scoprire che quel confine che cerchiamo di superare si allontana sempre di più e non lo si raggiunge, casomai è il contrario: ci raggiunge. Non a caso, la conclusione del suo tanto cercare è arrivata quest’anno, con il dittico composto dal Passeggero e da Stella Maris, appunto.
Il secondo libro del dittico di Cormac McCarthy, seguito del "Passeggero", riprende i personaggi e i luoghi che abbiamo imparato a conoscere, con lo stile inconfondibile di uno dei più grandi autori della letteratura americana di oggi.
Una riflessione, questi ultimi due, sulla morte, la fine, la malattia e la follia: lo stile è il suo, i personaggi anche, ma la ricerca è finita. Si scava intorno al luogo dove si è arrivati, ci si ferma, questa volta non ci si muove, ma si è passeggeri – nel duplice senso, in italiano, di chi viene trasportato, ma anche di chi è, semplicemente, di passaggio. Come scrive il New York Times, i libri di McCarthy «presentavano una visione cupa, spesso macabra, della condizione umana», eppure non siamo mai riusciti a smettere di leggerli.
Dicono qualcosa di noi, probabilmente: dicono qualcosa dei nostri confini, del nostro disequilibrio e del nostro peregrinare. Ci mancherà il vecchio McCarthy, non c’è dubbio. Ma le sue tracce sono profonde, e non ci perderemo.
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