La redazione segnala

Il Giappone, non quello del sushi

© Chikako Yamashiro, Mud Man, 2016.

© Chikako Yamashiro, Mud Man, 2016.

Quello che ci mostrano Shihoko Iida e Diego Sileo, i due curatori della mostra, è uno sguardo sul Giappone contemporaneo visto attraverso gli occhi di 17 artisti. E quello che scopriamo probabilmente è uno sguardo molto diverso dalle nostre aspettative, dai miti e dagli stereotipi con cui noi occidentali spesso lo avviciniamo: sushi e manga, cartoni animati e immense metropoli dove si muove un’umanità formicolante, fatta di piccoli automi, ubbidienti e disciplinati (e noi italiani sappiamo bene cosa significhi essere rappresentati attraverso stereotipi, visto che Der Spiegel si diverte puntualmente a dipingerci come spaghetti, mafia e mandolino).

Quello che ci mostrano gli artisti e i curatori invece, è un’arte molto attenta alla situazione politico- sociale, alle tematiche di genere e a quelle dell’ambiente, ai disastri naturali creati o subiti dall’uomo, un’arte concettuale lontana dagli stilemi decorativi degli ideogrammi giapponesi.

© Mari Katayama, you’re mine #001, 2014.

I diciassette artisti in mostra (nove donne, sette uomini e un collettivo), sono nati tra il 1924 e il 1987, appartengono quindi a epoche e correnti artistiche molto diverse ma sono accomunati dal fatto di essere stati tutti presenti sulla scena artistica giapponese e internazionale negli anni Duemila.

È chiaro quindi che le opere in mostra siano molto eterogenee, diverse le tecniche utilizzate, lo stile, la poetica, ma tutte hanno in comune questo tipo di approccio, critico, a volte polemico e provocatorio, verso la società giapponese contemporanea. Si percepisce in tanti lavori, anche se non in tutti, un generale senso di devastazione, corpi mutilati, città distrutte, morti, che rivelano come il terremoto del 2011, con il conseguente tsunami e incidente nucleare alla centrale atomica di Fukushima, abbiano lasciato un segno indelebile nella società e nel paesaggio urbano e naturale del Giappone contemporaneo.

Date queste premesse ogni artista, ogni opera, rappresenta un mondo a sé, un viaggio all’interno di una poetica diversa e ogni visitatore troverà la sua strada.

A noi è piaciuto particolarmente Makoto Aida, classe 1965, una delle voci più discusse dell’arte contemporanea giapponese. Artista e performer, abituato ad usare linguaggi diversi, dalla pittura alla fotografia alle installazioni, si presenta in mostra con due lavori che si distinguono da tutti gli altri per un tratto ironico, una vena satirica sorprendente. Si tratta di due video, che lo vedono entrambi coinvolto come performer: nel primo interpreta un tizio ubriaco che, vestito in abiti tradizionali, stravaccato su un divano, dice di essere Bin Laden: “Salve sono Bin Laden/ mi sto nascondendo in Giappone al momento/ Ho imparato un po’ di Giapponese/ Niente più terrorismo per me/ Quindi non cercatemi più/ Non ho gran che da dire…/ … / Qui in Giappone mi sento la testa totalmente vuota/  E’ una società tiepida.”

Come si può capire il tono polemico e politico è molto forte, così come la critica sociale, ancora più forte nel secondo video dove interpreta ‘un’ Primo Ministro che ha tutte le fattezze di Shinzo Abe, impegnato a tenere un discorso in un’immaginaria assemblea internazionale che molto ricorda le Nazioni Unite.

© Yoko Ono, Cut Piece, 1964/1965. Performed by the artist as part of New Works of Yoko Ono, Carnegie Recital Hall, New York City, March 21, 1965

Come ci ha colpito molto la video installazione di Meiro Koizumi, “Piangiamo i morti del futuro” una performance in cui si mischiano realtà, finzione e teatralità. In collaborazione con il Theatre Commons Tokyo, Koizumi ha coinvolto venti ragazzi mettendo in scena delle (finte) morti per esecuzione seguite da delle improvvise resurrezioni. Così nelle immagini possiamo leggere la cerimonia, inscenata in una ex base militare americana, di un lutto collettivo eseguito sotto la pioggia scrosciante da un pubblico coinvolto in prima persona.

A fianco a questo, l’installazione, apparentemente leggiadra, di Yui Usui, una giovane artista classe 1980, che con la sua opera ‘In vitro’, ha lavorato con eterei ricami e leggerissime stoffe di organza sospese nell’aria per rimandare però, in senso molto politico, alle disuguaglianze di genere, al lavoro seminascosto svolto dalle donne all’interno dei nuclei famigliari.

Così, da vicinanze e contiguità materiali ‘casuali’, nascono, rimandi, dialoghi inaspettati, a volte contrasti, tra artisti e linguaggi.

Impossibile elencare tutti gli artisti e le opere presenti in mostra ma per dare l’idea di questa molteplicità ed eterogeinità si  può ricordare  ancora il video di Yoko Ono di una  sua performance degli anni ’60 e l’opera concettuale di Saburo Muraoka, Body temperature, un tubo di rame, allacciato alla corrente elettrica che si prefigge di mantenere costante i 36,7° che corrispondono alla  nostra temperatura corporea da sfiorare con il dorso della mano per percepirne il contatto.

Affascinante anche l’installazione site – specific, Empty Body di Chiharu Shiota, nella quale ci si addentra per osservare dei simulacri di abiti bianchi femminili, che si svelano tra una miriade di fili neri che pendono dal soffitto. E per osservare gli abiti si gira intorno, frastornati dall’effetto ottico provocato dalle centinaia di fili, travolti da una sensazione di disturbo che non riusciamo a spiegarci.

© Chiharu Shiota, After the Dream, 201. La Maison Rouge, Paris, France. Photo Sunhi Mang. Copyright SIAE, Roma, 2020

E visionaria è l’installazione di Yuko Mohri che, basandosi sull’esperienza concreta del personale della metropolitana di Tokyo, che utilizzava oggetti quotidiani per deviare le infiltrazioni d’acqua, ha creato una gigantesca ‘giostra’ fatta di secchi, taniche d’acqua, ombrelli, spugne e strumenti musicali. Così, giocando con le leggi della fisica e del magnetismo, l’acqua scorre in un ritmo e ricircolo continuo, provocando suoni e rumori.

Per chiudere si può visitare la Project Room dedicata a Igor Tuveri, in arte Igort, fumettista e illustratore italiano, da sempre innamorato della cultura giapponese. Il progetto si chiama Il muschio e la carne ed è un progetto di arte ibrida, che vuole condurci a scoprire quello che è per Igort il senso della carnalità nel Sol Levante.

Per i non amanti ‘aprioristici’ del Giappone ci vuole un po’ di tempo per ‘entrare in sintonia’ con questa mostra perché tutte le opere riverberano una sensibilità, un gusto, un modo di vivere e di essere, in una parola una cultura, molto lontana dalla nostra.  Sono lavori che necessitano di tempo, di un lavoro di ‘distillazione’ per essere interiorizzati, opere concettuali che solo in alcuni casi indulgono all’estetica, a un apprezzamento visivo, istintivo, ‘di pancia’. Ma come detto, ognuno troverà la sua strada e  sarà un viaggio  che non potrà lasciarci indifferenti.

 

Per chi desidera conoscere la cultura e la tradizione del Paese del Sol Levante, proponiamo anche la lettura del nostro articolo "Svelare il Giappone".

© Meiro Koizumi, We Mourn the Dead of the Future, 2019

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