Immaginate un uomo interessato da sempre agli invisibili.
Immaginate un uomo che con la sua penna ha saputo rendere questi invisibili reali.
Immaginate un uomo che con le sue parole ha saputo cantare un paese, l’India, di inferno e miseria, riscattandone le tante difficoltà attraverso un elogio sentito e partecipe della pietas di cui l'uomo è capace, quand'è al suo meglio.
Immaginate tutto questo e avrete il ritratto di Dominique Lapierre, scrittore francese scomparso ieri all’età di 91 anni.
Figlio di una famiglia di diplomatici, Lapierre nasce nel 1931 a Châtelaillon-Plage, piccolo paese nell’ovest della Francia.
Dopo aver passato gli anni della Seconda guerra mondiale a Parigi, inizia la propria carriera da reporter per Paris Match nel 1956.
Sono gli anni dei suoi viaggi in Unione Sovietica, gli anni dei suoi lunghi periodi in India, luoghi che ispireranno uno dei suoi romanzi più famosi: La città della gioia.
Un giovane medico statunitense lascia il proprio paese e parte. Parte e va in India. È un viaggio alla ricerca di qualcosa che gli restituisca il senso dell’esistenza, un viaggio da un’America ricca all’inferno dell’India.
È questa la trama, semplice, ma che già preannuncia una forza di riscatto incredibile.
Sono gli anni in cui lo scrittore inizia a dedicarsi agli ultimi, gli abitanti delle bidonville indiane, gli "uomini-cavallo" di Calcutta.
E da questi ultimi impara, inizia a sognare.
Ma i sogni non rimangono solamente tali, perché Lapierre inizia a farsi conoscere per la sua attività di beneficenza. Nel 1982 fonda Action pour les enfants des lépreux de Calcutta (Azione per i bambini lebbrosi di Calcutta), sostenuto da Madre Teresa di Calcutta.
La vita di Lapierre è sicuramente stata una grande vita. Più grandi dell’amore, Parigi Brucia?, Gli ultimi saranno primi. Libri che hanno aperto lo sguardo di tanti lettori su mondi dimenticati. Libri dai quali sono stati tratti anche diversi film, uno dei quali girato da René Clément e un altro con protagonista Patrick Swayze.
Dominique Lapierre è riuscito a sensibilizzare l'attenzione di tanti verso l’invisibilità degli ultimi; tanti che, dopo i suoi romanzi si sono dedicati alla beneficenza, tanti che si sono iscritti a medicina per inseguire un sogno.
Ci sembrava giusto celebrare, dunque, con un piccolo ma sentito omaggio la vita e l'opera di uno scrittore che ha saputo cancellare le fittizie barriere fra l'una e l'altra, intessendo nel corso di un'attività lunga oltre sessant'anni un arazzo di vite semplici, umili, dolorose, piene di compassione e di gioia che continueremo a guardare negli anni a venire.
Da un'intervista a cura di Grazia Casagrande
Come è nato questo libro?
Da un impegno umanitario. Una persona di Bhopal, una città che non avevo ancora visitato posta al centro dell'India, è venuta a chiedere il mio aiuto per aprire una clinica ginecologica. Molte donne infatti ancora oggi soffrono per le conseguenze di una tragedia industriale, la più grave di tutti i tempi: il 2 dicembre 1984 una grande nuvola tossica è fuoriuscita da una fabbrica americana di pesticidi, uccidendo 30.000 persone e contaminandone più di 500.000. Sono andato a Bhopal e ho scoperto una città straordinaria. Ho aperto poi, grazie ai diritti d'autore di La Città della gioia e di Mille soli, una clinica ginecologica per donne che erano state totalmente abbandonate, che non avevano mai ricevuto nessun trattamento medico, nessun aiuto finanziario e che vivevano in estrema povertà.
Una notte poi, nella camera del mio albergo, ho iniziato a domandarmi che cosa fosse successo in quella città quella fatidica notte e ho deciso di iniziare un'inchiesta, facendomi aiutare da mio nipote Javier Moro, per scoprire i retroscena della vicenda e raccontare questa storia drammatica cominciata come una favola.
In effetti, in un primo tempo, tutti pensavano che quella fabbrica fosse un dono bellissimo.
Esattamente: dare pesticidi ai paesi più poveri dell'India per eliminare gli insetti che mangiavano le colture era veramente un sogno, tanto più che artefice era una multinazionale prestigiosa quasi mitica, la Union Carbide. Un sogno, una favola che in sette anni si è trasformato in un incubo, in un disastro totale. Volevo raccontare questa storia mostrando tutti i protagonisti, dando un volto agli ingegneri americani che avevano costruito la fabbrica e alla gente di Bhopal, vittime eroiche, persone veramente straordinarie. Io e Javier abbiamo condiviso la loro vita, abbiamo mangiato il loro cibo e bevuto la loro acqua, quell'acqua avvelenata da 15 anni dagli effluvi tossici della Union Carbide. Questo è davvero uno scandalo. Una delle prime cose che vorrei fare con i diritti d'autore di quest'ultimo libro è portare a questa gente dell'acqua potabile, 20 litri ciascuno ogni giorno. L'acqua è la vita. Nell'ultimo viaggio a Bhopal ho bevuto mezzo bicchiere d'acqua da un pozzo e la mia bocca è rimasta infuocata per cinque giorni. Questo è successo 18 anni dopo: una tragedia nella tragedia.
Ma qualcuno sapeva dei pericoli esistenti?
Sì, la Union Carbide conosceva bene le norme di sicurezza. Sapeva che l'isocianato di metile, il gas che è necessario per produrre il pesticida, lo stesso che serve per produrre il gas nervino, era molto pericoloso. Credo sia il gas più pericoloso di tutta l'industria chimica, ma esisteva una precisa cultura per la sicurezza in fabbrica. Questa però fu costruita senza tenere conto del clima totalmente differente e imprevedibile dell'India: un anno non c'è acqua e le colture muoiono, un altro anno ce n'è troppa... quando il clima crea problemi, i contadini non comprano più i pesticidi. Dopo due o tre anni la fabbrica di Bhopal ha cominciato a perdere soldi e, in una logica capitalista, quando si perdono soldi bisogna fare economia.
E che tipo di economia si è fatta?
Il direttore della fabbrica scelse di farla sulla sicurezza perché è un settore molto costoso. Così iniziò una lenta caduta all'inferno, fino a quell'ultimo tragico giorno. Nell'ultima settimana avevano già abbassato la refrigerazione delle cisterne piene di isocianato di metile, gas ben conosciuto dai tecnici, che deve essere conservato a una temperatura non superiore a zero gradi. L'azienda invece, con un risparmio di centomila lire al giorno di elettricità, ha abolito il sistema di refrigerazione. Quella notte la temperatura esterna della città era di 19 gradi ed è bastata un po' d'acqua infiltratasi nella cisterna a produrre una reazione che ha trasformato tutto l'isocianato di metile, che era liquido, in gas che, diffondendosi nell'atmosfera, ha ucciso circa 30.000 persone. Quella notte, il due dicembre 1984, il vento soffiava da nord a sud, a nord c'era la fabbrica e a sud i quartieri della miseria, le bidonville.
Ma non è stato individuato un responsabile?
Non c'è un solo responsabile: è una cascata di responsabilità. Non c'è mai stato un processo in tribunale che abbia dichiarato un colpevole. Il presidente dell'Union Carbite, al tempo della catastrofe, ha ricevuto un mandato dall'Interpol per essere giudicato di fronte ad un tribunale indiano ma non si è presentato, e neppure noi siamo riusciti a intervistarlo quando lo abbiamo cercato nella sua casa in Florida. Lo scandalo maggiore è che la Union Carbide ha dato al governo indiano, cinque anni dopo il disastro, 470 milioni di dollari garantendosi la totale impunità, ottenendo cioè che il governo indiano non accusasse il presidente della società di quanto era accaduto. Ben poco di quei soldi è in realtà arrivato alle vittime innocenti e alle persone di Bhopal!
Non c'è più niente da fare allora?
La pubblicazione di Mezzanotte e cinque a Bhopal ha provocato una grande commozione sia in India che in Europa e spero di poter cambiare le cose grazie a un libro che è un atto d'amore per l'India, una storia di eroi oscuri, come quella religiosa che in quella notte tragica è riuscita a salvare decine e decine di bambini, persone che sono sopravvissute per vincere ogni tipo di avversità: per noi occidentali che abbiamo tutto, ma non ce ne rendiamo conto è un messaggio fantastico di fede, di speranza...
C'era stato però un giornalista che aveva denunciato la gravità della situazione.
Sì e la cosa ha dell'incredibile. Quattro articoli apparsi in un giornale molto importante di Bhopal: un giornalista, che aveva amici nella fabbrica, sapeva che le misure di sicurezza erano completamente disattese e ha denunciato la situazione per ben quattro volte dicendo che la città era sull'orlo di una catastrofe, ma nessuno lo ha ascoltato.
Il suo libro fa particolarmente riflettere oggi in periodo di globalizzazione, quando esiste il pericolo che si utilizzino, senza molti scrupoli, i paesi più arretrati per guadagnare maggiormente.
Il pericolo è reale, ma il tema è anche più vasto: la cultura della sicurezza esisteva anche in quei luoghi e a quel tempo, ma la logica del capitalismo vuole che una fabbrica non possa perdere soldi. Proprio questa mentalità può provocare incidenti ovunque, anche negli Stati Uniti. Ad esempio ho visitato una fabbrica di pesticidi a Charleston in West Virginia, sei volte più grande della fabbrica di Bhopal e ho sentito un odore particolare, l'odore dell'isocianato di metile, intendo dire che la più grande, sofisticata e protetta delle fabbriche non sarà mai immune da incidenti se non si investe molto denaro sulla sicurezza. Se succedesse qualcosa a Charleston sarebbero 250.000 americani a subirne le conseguenze.
I suoi lettori possono in qualche modo contribuire ?
Sì leggendo il libro. Con i diritti d'autore possiamo fare molto, possiamo cambiare la vita a migliaia di persone che ancora oggi hanno bisogno di trattamenti medici particolari. Sinceramente credo che in Italia potrò ottenere buoni risultati perché ho scoperto che avete un livello di solidarietà e di generosità davvero straordinario: ci sono più medici e infermieri volontari di nazionalità italiana nel terzo mondo che di nessun'altra nazione.
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