Forse non ci sono giorni della nostra fanciullezza che abbiamo vissuto più pienamente di quelli che crediamo invece di aver trascorso senza viverli: cioè quelli trascorsi con un buon libro
Quando un articolo comincia con «esistono x tipi di persone» e poi va avanti elencando questi tipi, bisogna sempre diffidare. Di solito non è altro che un escamotage stilistico a basso costo che nulla ha a che fare con la realtà. Quindi mi perdonerete se comincerò esattamente così. Esistono tre tipi di persone, al mondo: quelli che non conoscono Proust, e me ne dispiaccio, nonostante sia certo delle loro vite piene e soddisfacenti; quelli che hanno un volume enorme sullo scaffale della libreria e non hanno mai avuto il coraggio di leggerlo se non per guardare sconfortati il numero di pagine; e quelli che hanno letto almeno Dalla parte di Swann, se ne sono innamorati e ora non conoscono niente di meglio di Proust.
Quando si legge Proust accadono cose meravigliose. La prima – e la più banale, se vogliamo – è capire una volta per tutte quale sia il confine della scrittura. Intendo dire che lo stile di Marcel Proust è la frontiera oltre cui nessun essere umano è mai andato, e forse andrà mai. È il vento solare della letteratura: oltre non c’è possibilità di vita, per noi. La seconda (non necessariamente la seconda, può arrivare anche più avanti) cosa che succede è che si assuma una posa, quella del lettore che ha affrontato Alla ricerca del tempo perduto.
Lasciamo da parte gli studiosi, categoria per cui provo molta invidia, loro che passano la vita a studiare una sola e grande opera. Parlo proprio dei lettori comuni, come sono io, che, improvvisamente, quando leggono Proust iniziano a dire «la Recherche» al posto del titolo tradotto, si informano sul sapore e le fattezze di una madeleine e iniziano ad arrotolare la r quando pronunciano «Proust». Cose, dicevo, meravigliose.
La mia unica consolazione, quando salivo a coricarmi, era che la mamma sarebbe venuta a darmi un bacio non appena fossi stato a letto
Marcel nasce nel 1871 a Parigi da una famiglia benestante – per parte di madre – che gli permette di vivere un’infanzia agiata e serena. La casa materna, infatti, è a Auteuil, una nota località alle porte della capitale francese molto ambita come luogo di villeggiatura dalle famiglie altoborghesi. Da questa cittadina e dalla casa paterna di Illiers, il piccolo Marcel trae molto del materiale per i volumi che trattano della sua prima giovinezza. È un bambino vivace, curioso e cagionevole: soffre d’asma e questo lo costringerà a lunghi soggiorni al mare – in quello che si trasfigurerà nel Grand Hotel Balbec, in Normandia. Prova un amore febbrile per la madre, del cui affetto è affamato e famelico. Lei, per placarne il desiderio, gli legge ogni sera il suo primo libro, François le Champi di George Sand, la storia di un trovatello, di una mugnaia, e del loro sentimento segreto.
Marcel si scopre presto omosessuale, ma è in conflitto con la sua natura, nonostante sia circondato, nei buoni salotti parigini, da numerosi personaggi che con lui condividono quest’orientamento, primo fra tutti, il conte Robert de Montesquiou, modello del barone Charlus della Recherche. Altrettanto presto, comincerà a scrivere articoli e tradurre opere di autori fondamentali come John Ruskin, intraprendendo la vita del perfetto intellettuale.
Poi, nel 1909, dopo svariati tentativi di scrivere fiction, romanzi e pastiche per trovare il proprio stile e la propria voce, Marcel inizia la Recherche. Lo occuperà fino alla morte: un esilio letterario che somiglia molto, tuttavia, a una seconda, più intensa, vita.
Come vorresti morire?
Migliore – e amato
Alla ricerca del tempo perduto è un libro per bambini. Già, è così, ma ora mi spiego meglio, perché non vorrei che qualcuno lo facesse trovare sotto l’albero ai propri figli di sette anni. Per leggere l’opera di Proust bisogna essere in una disposizione particolare, quella, appunto, dei bambini: bisogna abbandonare tutto il resto, arrendersi alle parole come si faceva con le favole. Non si tratta solo di sospendere l’incredulità, è proprio una questione di entrare a capofitto in un mondo – quello di Proust – e farlo nostro, fingere, senza neppure troppa fatica, che sia il nostro. La Recherche vuole questo da noi, e se non lo facciamo, sarà solo un pasto particolarmente indigesto di cui non vediamo la fine.
Proust aveva in mente questo, su per giù: trasformare la sua esperienza particolare in qualcosa di universale. Gli è stato detto che analizzava la realtà al microscopio, sezionandola come su un tavolo anatomico, ma lui rispondeva che era esattamente il contrario. Il suo è lo sguardo dell’astronomo che punta il telescopio alle stelle. Le cose, gli oggetti minuscoli in cui inciampa, esplodono per diventare di tutti, trasformandosi da una ricerca tutta personale in una faccenda, appunto, universale. Come accade quando si alzano gli occhi alle stelle, che se ne stanno lassù e parlano in modo diverso a chiunque le guardi. Eppure sono sempre loro. Le stelle in Proust sono le madeleine, i ciottoli sul selciato, i baci della buonanotte, la casa di Combray, Albertine. I sensi di Proust sono il punto di partenza, sempre, per le sue storie, pronte a diventare – qualora siamo pronti anche noi – le nostre.
A lungo, mi sono coricato di buonora
Cominciamo dall’incipit, da dove inizia proprio Proust. Chi vuole parlare della Recherche e fare bella figura tra colleghi e amici non può ignorare questo splendido inizio, dov’è già tutto. Questa è la traduzione di Giovanni Raboni, ma non è l’unica. Natalia Ginzburg cominciava così «Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera», per esempio, mentre la versione di Bruno Schacheri suonava come «Per molto tempo io sono andato a letto presto». E Marcel Proust? Lui iniziava così:
Longtemps, je me suis couché de bonne heure
Qui dentro c’è già il mondo della Recherche. Il tempo passato, quello dell’abitudine e dunque progressivo, e quello della narrazione, cioè a posteriori, del ricordo. C’è chi dice che tutta l’opera sia riassunta in queste parole, e forse è vero. Ma non sia una scusa per non leggere il resto: non basta. Proust vi vede.
E va bene: basta andare a cercare su internet per sapere che forma hanno i dolcetti francesi, e persino per immaginarsi il loro sapore. Ma sapete anche insieme a cosa le mangia Proust, nel primo volume della Recherche? È importante, perché da qui sgorga tutto il romanzo. Le mangia intinte in una tisana al tiglio. Perciò, quando dite «Caspita, mi è successo come con le madeleine di Proust!» ora potrete aggiungere «come con le madeleine e la tisana al tiglio di Proust». Non male, ma c’è un’altra cosa.
Il romanzo è pieno zeppo di elementi come questo, cioè di esperienze sensibili, anche banali, se vogliamo, da cui viene fuori l’occasione per costruire un ricordo, per andare a cercare il tempo passato. Uno fra tutti, l’acciottolato per arrivare a casa dei Guermantes. Quando il Proust adulto ritorna lì, inciampa su un sanpietrino (quante volte sarà successo a tutti noi) e, all’improvviso, si ricorda del vecchio selciato e percepisce lo scollamento tra la sua vita presente e quella passata, spensierata, della fanciullezza. Vedete bene il genio di Proust. Noi saremmo inciampati, avremmo detto qualche parolaccia e inveito contro l’amministrazione comunale; lui no, lui crea un mondo, da quella roba lì.
Tutte le cose della vita che sono esistite un tempo tendono a ricrearsi
Marcel aveva un cugino (acquisito) illustre: Henri Bergson. Senza dilungarci troppo, Bergson è stato un filosofo che cambiò radicalmente la concezione del tempo nel Novecento. Nessuno pensa che Proust sia stato influenzato da lui, ma ci sono buone possibilità che l’idea che il tempo non dovesse essere per forza o lineare o circolare fosse nell’aria. Tra le pagine della Recherche, noi vediamo il tempo dell’autore, che non è un continuum da un momento a un altro. No. Nel mezzo, tra un punto e l’altro, ci sono infinite flessioni, dalla più grande alla più piccola, come tante voragini che si aprono su un cammino apparentemente piano.
Questi inciampi tengono vivace la narrazione, certo, ma hanno anche un altro scopo di tipo rivelatore. Sono intermittenze, momenti di sospensione in cui la realtà si rivela per ciò che è. E, dice Proust, non come opposto del possibile, ma come qualcosa di abissalmente più profondo rispetto a ciò che appare. Cosa significa, in parole – mie – povere: che quando Proust torna all’hotel di Balbec, il tempo lì si ferma, fa un’acrobazia, torna indietro al ricordo della nonna con cui frequentava la località di villeggiatura, fa un balzo in avanti alla sua morte e restituisce, all’autore, la consapevolezza che la donna non c’è più nel presente narrativo. Facile, no? Per niente.
Perché il mio tentativo, qui, è di spiegare una cosa che è perfetta così com’è, ovvero tra le pagine della Recherche. E dunque, se siete arrivati fin qui, sono desolato di dovervi comunicare che, nonostante questo prontuario, non potete far altro che leggere il romanzo più bello del mondo.
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