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Il golpe in Cile, 50 anni dopo

© Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

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La storia è nostra e la fanno i popoli

L’11 settembre 1973 le truppe armate dell’esercito cileno, guidate da Augusto Pinochet, sobillate dalle frange filoamericane e dalla CIA stessa e appoggiate da più fronti popolari – proprietari terrieri, studenti, medioborghesi –, circondano e assaltano il palazzo del governo, la Moneda, dov’è il presidente in carica Salvador Allende, per mettere in atto il golpe che lo rovescerà.

Sicuramente questa sarà l’ultima opportunità in cui posso rivolgermi a voi. La Forza Aerea ha bombardato le antenne di Radio Magallanes. Le mie parole non contengono amarezza bensì delusione.

Dalle sale del palazzo, le sue parole faranno il giro del mondo: assediato dai caccia bombardieri e da quell’esercito che scalpitava da anni per prendere il potere, Allende sa che è finita. Qualche mese prima, il 29 giugno, il generale Souper aveva già tentato il colpo di stato, il Tanquetazo, il golpe dei carrarmati, ma aveva fallito. Da allora la violenza si è diffusa come una macchia d’olio nel paese, con scioperi, provocazioni, attentati, e il governo di Allende ha resistito finché le storia non gli si è rivoltata contro.

Alcuni storici sono convinti che a far precipitare la situazione sia stato un evento piccolo, un incidente automobilistico, per così dire, tra il ministro degli Interni di Allende, Carlos Prats, e un’aristocratica di Santiago, Alejandrina Cox. Un incidente che si colloca in un clima di instabilità e tensione e che ha portato alle dimissioni di Prats e all’ingresso nell’esecutivo di Pinochet, l’autore del golpe e della dittatura che di lì a poco avrebbe segnato la storia cilena.

© Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Di fronte a questi fatti non mi resta che dire ai lavoratori: non rinuncerò! Trovandomi in questa tappa della storia, pagherò con la vita la lealtà al popolo. E vi dico con certezza che il seme affidato alla coscienza degna di migliaia di cileni, non potrà essere estirpato completamente.
Hanno la forza, potranno sottometterci, ma i processi sociali non si fermano né con il crimine né con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli.

Allende era stato eletto presidente del Cile nel 1970, appena tre anni prima, e aveva proposto la da lui battezzata “via cilena al socialismo”, parole che polarizzarono immediatamente sia le forze interne, sia quelle estere: il suo partito, Unidad Popolar, una coalizione che raccoglieva i fronti di sinistra, si era posto da subito l’obiettivo di arrivare al socialismo in fretta, smarcandosi dalle ingerenze capitaliste degli Stati Uniti. Ingerenze che andarono nella direzione di deporlo in ogni modo possibile, inserendosi nelle dinamiche della Guerra fredda e impedendo qualsiasi mediazione. Gli Stati Uniti, con Allende capo dello stato, bloccarono gli aiuti economici, mentre i servizi segreti tentavano in ogni circostanza di fomentare un’opposizione populista e feroce.

E nonostante l’inflazione inarrestabile (350% alla vigilia del golpe) e un PIL in caduta libera (-5%), Allende non rinuncia neppure circondato, neppure assediato e col destino già scritto a rivolgersi ai suoi, ai lavoratori e alle lavoratrici cui era destinato il suo operato. A nulla vale, però, il loro appoggio l’11 settembre, perché su una cosa il presidente ha tristemente ragione: Pinochet e il suo esercito hanno la forza. Una forza schiacciante, militare e diplomatica, perché questa volta anche gli statunitensi non ammetteranno il fallimento del golpe.

Lavoratori della mia Patria: voglio ringraziarvi per la lealtà che avete sempre avuto, per la fiducia che avete sempre riservato ad un uomo che fu solo interprete di un grande desiderio di giustizia, che giurò di rispettare la Costituzione e la Legge, e cosi fece.
In questo momento conclusivo, l’ultimo in cui posso rivolgermi a voi, voglio che traiate insegnamento dalla lezione: il capitale straniero, l’imperialismo, uniti alla reazione, hanno creato il clima affinché le Forze Armate rompessero la tradizione, quella che gli insegnò il generale Schneider e riaffermò il comandante Ayala, vittime dello stesso settore sociale che oggi starà aspettando, con aiuto straniero, di riconquistare il potere per continuare a difendere i loro profitti e i loro privilegi.

Nei progetti di Allende c’era, del resto, la nazionalizzazione delle industrie e il recupero della sovranità sulle risorse naturali del Cile – come il rame, per esempio, di cui il paese è ricco. Staccato dal dominio del blocco occidentale, il Cile avrebbe avuto un posto tra le democrazie contemporanee, solido e capace di reggersi sulle proprie gambe, ma la strada (nessuno era così ingenuo da credere il contrario) non sarebbe stata facile. Troppe le opposizioni, troppe le implicazioni, troppe le mete invisibili ai miopi, tra cui rientravano anche i lavoratori che, con l’aumento dei prezzi, la paralisi produttiva e la situazione di guerriglia, morivano di fame.

Mi rivolgo a voi, soprattutto alla modesta donna della nostra terra, alla contadina che credette in noi, alla madre che seppe della nostra preoccupazione per i bambini.
Mi rivolgo ai professionisti della Patria, ai professionisti patrioti che hanno continuato a lavorare contro la sedizione auspicata dalle associazioni di professionisti, dalle associazioni classiste che hanno difeso anche i vantaggi di una società capitalista.
Mi rivolgo alla gioventù, a quelli che cantarono e si abbandonarono all’allegria e allo spirito di lotta.
Mi rivolgo all’uomo del Cile, all’operaio, al contadino, all’intellettuale, a quelli che saranno perseguitati, perché nel nostro paese il fascismo ha fatto la sua comparsa già da qualche tempo; negli attentati terroristi, facendo saltare i ponti, tagliando le linee ferroviarie, distruggendo gli oleodotti e i gasdotti, nel silenzio di coloro che avevano l’obbligo di procedere. Erano d’accordo. La storia li giudicherà.

Poco dopo il discorso, Allende prende un fucile d’assalto – un AK-47 che gli aveva donato Fidel Castro – e smette di difendere il palazzo. Si spara una scarica di colpi in testa, dal basso verso l’alto, solo, per non cadere nelle mani della barbarie che imperversa. Nixon e Kissinger accolgono la notizia con serena soddisfazione e non perdono tempo a riconoscere il nuovo governo, al cui comando si è autoproclamato Pinochet. Il blocco socialista condanna l’accaduto, e anche l’Italia democristiana, ma solo perché il colpo di stato è un modus operandi che fa paura a tutti e non si può transigere.

Il colpo di stato pone fine a tutti i progetti politici di Allende, e comincia una delle più efferate dittature della contemporaneità. E si potrebbe pensare, a un primo sguardo, che l’avvento di Pinochet rappresenti un enorme passo indietro, che l’operato di Allende, che ha governato per appena tre anni, sia stata una parentesi infelice e utopica, ma non è così. Quella via socialista ha continuato a lavorare, e continua tuttora, anche sotterranea, anche non vista: è l’eredità di Allende, una testimonianza che darà i suoi frutti migliori nel futuro, ma che arriva da quell’esperienza lì, da quell’11 settembre segnato dalla tragedia.

Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore.
Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!

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