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Breve storia del Partito comunista italiano

Illustrazione di Eva Pieroni Harouach, 2023, studentessa del Triennio in Graphic Design e Art Direction, NABA, Nuova Accademia di Belle Arti  

Illustrazione di Eva Pieroni Harouach, 2023, studentessa del Triennio in Graphic Design e Art Direction, NABA, Nuova Accademia di Belle Arti  

È necessario promuovere la costituzione organica di un partito comunista [che sia] un partito d’azione rivoluzionaria, un partito che abbia coscienza esatta della missione storica del proletariato e sappia guidare il proletariato all’attuazione della sua missione

Antonio Gramsci

Se vi foste trovati in una qualsiasi città italiana nell’autunno del 1917, e, benedetti da una serie di felici coincidenze – felici per uno storiografo, si capisce –, vi foste imbattuti in un gruppo di donne che, bardate alla bell’e meglio, si erano svegliate di buon’ora per andare in fabbrica a fare il lavoro degli uomini al fronte, forse avreste potuto ascoltare un discorso simile a quello che segue. Mettiamo un discorso tra due madri, una che ha sentito da qualcuno che sa leggere che in Russia è successo da poco qualcosa di eccezionale: pare – le hanno detto – che ci sia stata la rivoluzione e che Lenin, che ha assunto il potere insieme ai suoi bolscevichi, si sia ritirato dalla guerra.

Mettiamo anche che una delle due donne, o entrambe, avesse un figlio nato proprio nell’anno del signore 1900 e che, di lì a poco, sarebbe stato costretto ad arruolarsi. Immaginatevi ora il sollievo di sapere che un’alternativa a quella carneficina mostruosa che era la Grande guerra – oggi ci appaiono ingenui tutti a non chiamarla Prima, ingenui e pieni di speranza – un’alternativa, si diceva, esisteva, ed era la rivoluzione.

Lo scenario, per quanto non documentato, fa capo all’idea che uno dei fattori storici e tutt’altro che contingenti che hanno portato alla nascita del Partito comunista in Italia fu proprio la stanchezza per una guerra logorante e stagnante che, ormai era chiaro, non avrebbe comportato alcun beneficio nel breve periodo (qualcuno convinto che la guerra portasse benefici, allora esisteva; anche oggi, temo). Altro fattore determinante, e non di poco conto, la consapevolezza di classe: un’organizzazione partitica sarebbe stata impossibile senza una coscienza della propria condizione, à la Kant, di minorità.

Questa nuova guerra di massa distrugge la reciprocità perché distribuisce i propri costi, anzitutto in termini di vite umane, in maniera diseguale. Poveri e ricchi, fanti e ufficiali non muoiono allo stesso modo e nella stessa quantità.

La tesi può essere abbracciata oppure no, ma il fatto che il motto del “primo” Partito comunista d’Italia (e non ancora italiano) fosse «fare come in Russia» la dice lunga sul legame, strettissimo, tra l’exemplum sovietico, la fine della guerra e l’urgenza di un rinnovamento di una classe dirigente cui non si poteva più essere così indiscriminatamente soggiogati. Era tempo della partecipazione: le masse volevano prendere parte alla politica, volevano trovare uno spazio in cui poter essere protagonisti e non solo pedine della storia. Il Partito comunista prometteva esattamente questo.

Gli operai, dal 1892, erano già rappresentati dal Partito socialista, questo è fuor di dubbio. E la corrente massimalista millantava la rivoluzione proletaria sin dalle sue origini – ma indugiavano sempre, la teoria era tanta, la prassi inesistente. Bisognava tradurre la filosofia su cui si basava il comunismo in pratica politica. Lenin, in questo, era riuscito, perché l’Italia no?

Ci furono degli intoppi. Uno dei più clamorosi fu il canonico biennio rosso, che ebbe l’effetto contrario rispetto ai propri auspici di favorire la reazione fascista. Altro inciampo, al momento della fondazione con la scissione del 1921 a Livorno, aderirono al nuovo Partito comunista d’Italia in pochi, troppo pochi perché si potesse far qualcosa di concreto nei tempi brevi che l’ascesa di Mussolini stava imponendo. Poi ci fu la crisi Matteotti, la messa al bando del comunismo – che venne però riconosciuto come principale oppositore del fascismo – e, infine, la clandestinità. «Fare come in Russia» era diventata un’utopia: ora si faceva come in Italia, e lì tutti i comunisti della prima ora furono incarcerati, uccisi o mandati al confino.

La classe operaia, abbandonata la posizione unicamente di opposizione e di critica che tenne nel passato, intende oggi assumere essa stessa, accanto alle altre forze conseguentemente democratiche, una funzione dirigente nella lotta per la liberazione del paese e per la costruzione di un regime democratico

Palmiro Togliatti

Dopo la guerra, venne il «partito nuovo», e fu Togliatti a promuoverne la nascita e gli obiettivi.  Erano obiettivi molto distanti da quelli di Livorno ’21 e dai punti del Comintern accettati a Imola, tra cui spiccava la richiesta dell’espulsione dei riformisti dal Partito che si andava costituendo. Spiccava perché, ora, conclusa l’esperienza e fascista e bellica, i riformisti tornarono eccome, nell’ottica di costruire una strategia incentrata sulla democrazia politica, su riforme «di struttura», ovvero inclusive, e su alleanze di larghe intese. Il cambiamento – radicale – faceva vacillare i più fedeli alla dottrina: dov’era finita la rivoluzione?

Era evidente che fare come in Russia non fosse più tra le vie percorribili. In primo luogo, perché una rivoluzione nei Paesi occidentali era particolarmente complessa – c’erano gli americani, e stava cominciando la guerra fredda. E poi iniziava a essere chiaro che, con Stalin, le cose in Russia non andassero così bene come l’avvento del comunismo aveva promesso: Togliatti non avrebbe tradito Mosca, ma aveva visto, durante il suo allontanamento dall’Italia, come si viveva lì, e quali contraddizioni nascondeva la dittatura proletaria.

Perciò si cominciò a prospettare un Partito nuovo, che rispondesse alle esigenze di un Paese che non era la Russia, ma l’Italia, e che potesse rappresentare la classe operaia al governo in maniera più democratica possibile. Si chiamò «transitorio», passaggio tra un momento storico – il capitalismo in agonia – e un altro – il socialismo realizzato.

Noi siamo dunque democratici in quanto siamo non soltanto antifascisti, ma socialisti e comunisti. Fra democrazia e socialismo non c’è contraddizione. Sappiamo benissimo che rivoluzioni socialiste nel mondo ve ne saranno ancora, perché in quella direzione marcia l’umanità

Palmiro Togliatti

Più il Partito si evolveva, trovava nuovi leader e affinava la propria dottrina, più la rivoluzione di Russia appariva distante. Il mondo si era scisso nei due blocchi, e la guerra fredda appariva, in tutto e per tutto, un preambolo a un conflitto vero e proprio, paventato e temuto. Chi stava dall’altra parte della barricata – russa o statunitense – non era avversario politico, ma nemico. L’atteggiamento filosovietico di alcune frange italiane si esaurì definitivamente nel 1956, con l’invasione ai danni dell’Ungheria: la nuova ala riformista sembrava rimasta l’unica, e si cristallizzò nel 1969 nella figura di Berlinguer, il nuovo segretario del Partito.

Con lui arrivano gli anni del compromesso storico, del rapimento Moro, della solidarietà nazionale. Con lui arriva una stagione eroica, forse non tanto in vita quanto dopo la sua morte, avvenuta durante un comizio a causa di un malore: l’ultimo comunista, l’ultimo che ha saputo davvero portare il Partito a essere un fenomeno di massa. Nell’anno della morte, il 1984, il Pci è il maggior partito italiano, un exploit che – sembra destino – non sarebbe mai più stato replicato.

Nel 1989 crollarono l’Urss, il muro di Berlino e il Partito comunista italiano. Le ragioni della fine di uno dei partiti più importanti del Novecento sono tante, e non vale la pena farne un resoconto ora. Con un afflato millenaristico potremmo dire che il suo compito, in Italia, si fosse concluso: oltre, forse, ci sarebbe stata solo la rivoluzione. Ma la verità storica è sempre più complessa, e ha a che fare con i cambiamenti di lungo periodo, la fine della politica dei partiti, un rinnovato disinteresse nella cosa pubblica.

La verità storica si deve studiare con calma, e non si può demandare a un articolo tanto breve e sbrigativo: per questo qui sotto c’è la nostra bibliografia, l’unico modo per capirne qualcosa di più, e approfondire un fenomeno che avrà, ancora per parecchio tempo, una grande eco.

Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia

Enrico Berlinguer

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