Il 30 settembre 2022 in tutto il mondo si celebra la giornata mondiale della traduzione, ricorrenza indetta ormai più di trent’anni fa per rendere omaggio al lavoro di una categoria professionale spesso data per scontata: quella dei traduttori.
Non ce ne rendiamo conto, ma è grazie a loro che possiamo entrare in libreria e trovare sullo scaffale delle novità Murakami accanto a Carrère e Dan Brown. Grazie a loro sappiamo come assemblare il tavolino che abbiamo comprato per il soggiorno e quanti integratori di magnesio e potassio possiamo assumere prima di sentirci male. Con l’avanzare della globalizzazione, ci siamo abituati a vivere in un mondo tradotto, eppure questa evoluzione socioculturale non ha fatto che rendere sempre più invisibile il lavoro di chi, per mestiere, crea l'opportunità per una comunicazione e uno scambio fra Paesi che parlano lingue differenti.
Lungi dall’essere un semplice corrispettivo umano di Google Translate, il traduttore – in special modo il traduttore letterario – svolge infatti un ruolo di mediazione filtrando attraverso il proprio vissuto e la propria sensibilità il testo di partenza. A questo proposito il poeta Yves Bonnefoy ha teorizzato come, nell’attività di traduzione, si sia umanamente coinvolti in maniera diretta e non mediata: il traduttore «diventa cassa di risonanza delle passioni, delle gioie e dei drammi che vive l’autore dell’originale», non limitandosi a tradurre «segni con segni, bensì vita con vita».
Ecco che, nelle parole di Bonnefoy, la traduzione viene vista come un’interpretazione, una sorta di telefono senza fili in cui il traduttore deve seguire il metodo Stanislavskij, immedesimarsi nel vissuto dell’autore originario e per un istante fondersi con lui in una simbiosi artistica. Non a caso, nel corso della storia si è parlato della sua figura come quella di un autore invisibile, responsabile del successo del libro tanto quanto il vero scrittore. Non è un caso che agli autori invisibili sia anche dedicato l’annuale ciclo di incontri promosso e organizzato dalla traduttrice Ilide Carmignani in occasione del Salone del libro di Torino.
Che si tratti un classico o di una novità, una buona traduzione è infatti fattore determinante per valutare se acquistare o meno un libro: quanto spesso la difficoltà di lettura ci ha spinti ad abbandonare un romanzo che, con una traduzione più scorrevole, ci sarebbe potuto piacere di più? Il traduttore ha infatti un compito assai delicato, perennemente in bilico fra la necessità di restare fedele al testo originale e l’imperativo di usare una lingua vera, reale, quotidiana, che non suoni artificiale alle orecchie del lettore. Un compito che nella storia è stato oggetto di un vivace dibattito che ha coinvolto linguisti e teologi, filosofi e scrittori: ci si è interrogati sulla liceità di trasporre in un’altra lingua la parola di Dio e la poesia, così come si è discusso sull’atteggiamento da tenere di fronte a un testo scritto in un lessico volutamente arcaico.
Appare quindi evidente la difficoltà insita nell’arte di «dire quasi la stessa cosa», così Eco ha definito la traduzione nel noto saggio in cui si interrogava sulle condizioni di possibilità di una resa del tutto fedele al testo fonte. La questione della fedeltà è stata per anni terreno di scontro. Già dal Seicento, non senza una punta di misoginia, si era teorizzato come la traduzione fosse assimilabile a una donna: se era bella, non poteva essere fedele.
La storia della traduzione da allora si è evoluta, e grazie allo sviluppo della linguistica e della sociologia sono entrati in gioco fattori che nel diciassettesimo secolo non potevano essere presi in considerazione: Walter Benjamin ha teorizzato il concetto di lingue anisomorfe, sostenendo come ogni idioma fosse differente dall’altro e per questo non si potesse parlare della traduzione come di una semplice trasmissione di significato. Concetto ripreso poi anche dal filosofo José Ortega y Gasset, che a questo proposito arrivò a parlare della «miseria e dello splendore della traduzione»: è inutile illudersi di poter sovrapporre due lingue diverse, eppure lo sforzo fatto dal traduttore acquista una statura epica e commovente perché è necessario allo scambio fra culture.
Il ruolo del traduttore è stato al centro di dibattiti molto accesi nel corso della storia ed è per rendergli omaggio che, nel 1991, la Fédération Internationale des Traducteurs ha istituito la Giornata Mondiale della Traduzione. La ricorrenza viene ogni anno celebrata con cicli di conferenze e occasioni di approfondimento rivolte non soltanto agli addetti ai lavori, ma anche ai semplici curiosi desiderosi di scoprire qualcosa di più su questa difficile e invisibile professione. L’unico momento in cui la traduzione assurge agli onori della cronaca pare infatti essere in occasione di polemiche su libri ritenuti intoccabili (basti pensare al polverone che sollevarono le riedizioni della saga di Harry Potter e del Signore degli anelli), laddove in realtà una traduzione è tanto ben fatta quanto più passa inosservata. Come a dire: il trucco c’è ma non si vede – questa frase è stata pensata in giapponese, eppure leggendola non te ne rendi conto.
La bellezza della traduzione è quindi una bellezza silenziosa e discreta, passata sotto silenzio per 364 giorni all’anno ma celebrata ogni 30 settembre. La data di questa ricorrenza non è casuale, trattandosi, secondo il calendario cristiano-cattolico, del giorno dedicato a san Girolamo, autore della prima traduzione completa in lingua latina della Bibbia (la Vulgata) e patrono di traduttori e interpreti.
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