Arrivi e partenze

Katja Petrowskaja: la foto mi guardava

© Ph Sasha Andrusyk

© Ph Sasha Andrusyk

Certe immagini sono conchiglie.
Nautili dall'architettura affascinante che una risacca generosa e inaspettata riporta sul bagnasciuga e ci mette davanti agli occhi in tutto il loro delicato splendore. 
"Com'è possibile", siamo tentati di pensare allora, "non essersi ancora soffermati ad ammirare con attenzione tutto questo?".
Il segreto per guardare alle cose di tutti i giorni con occhi sempre nuovi, la tecnica per leggere in profondità le storie che riposano sotto ogni manifestazione del visibile, ce li ricorda Katja Petrowskaja nel corso di una lunga, appassionante conversazione che siamo felici di poter offrire ai lettori di Maremosso.
Il nuovo libro dell'autrice del celebrato romanzo Forse Esther s'intitola La foto mi guardava (disponibile dal 30 aprile per le edizioni Adelphi) ed è una raccolta di scritti che indagano sul rapporto fra ciò che vediamo e la possibilità di esprimerne l'essenza attraverso le parole. Più di semplici descrizioni, gli scritti di Petrowskaja - scrittrice tedesca di origine ucraina - s'inscrivono a pieno titolo nella tradizione ingiustamente trascurata della ecfrasi, quella tecnica che permette di evocare le caratteristiche di un'opera d'arte con eleganza ed esattezza. La foto mi guardava ci invita a rallentare il vorticoso flusso di immagini nel quale viviamo immersi, e riprendere a dedicare a ogni immagine l'attenzione che merita.  

Buona lettura!


Info: Katja Petrowskaja racconterà il suo libro al pubblico del Salone del libro di Torino, domenica 12 maggio alle ore 15.15 alla Sala Internazionale

La foto mi guardava
La foto mi guardava Di Katja Petrowskaja;

Storie che hanno spesso a che vedere con la Storia, con le « date che continuano a mordere », con le ferite immedicabili del Novecento, con le speranze infrante e le fedi vanificate dal tempo.

L'intervista

Maremosso: Non siamo solo noi umani a guardare le foto: anche le foto guardano in noi, stando al titolo del suo libro. Cosa significa?

Katja Petrowskaja: Guardare una foto non è un processo passivo. È un incontro.
Non tutte le foto suscitano il nostro interesse e persino le foto più affascinanti, a volte, non mettono in moto la scrittura. Capita che l’incontro si celebri in silenzio.
Ci sono moltissime foto delle quali non oserei mai scrivere.
Ma se parliamo di incontri, significa che io ho scelto una foto che mi parlava e c’è stato un processo di riconoscimento. La questione, però, è riconoscimento di cosa?
Può essere estremamente soggettivo, è un processo nel quale non ci sono gerarchie, generi o sorgenti, tipi o tecniche. Nel mio libro si trovano foto tratte da archivi, mostre, album di ricordi di famiglia, internet, istantanee, reliquie, foto fatte col cellulare, oppure rarità del diciannovesimo secolo. Persino qualcosa da un mercatino delle pulci. Solo poche fotografie sono state scattate da fotografi famosi, come Francesca Woodman, Robert Capa o Josef Koudelka. Vediamo immagini dappertutto, viviamo in un flusso di foto.
Io volevo fermare la corrente nella quale sono immersa, affrontando questa inflazione visiva, rallentandola e andando nel dettaglio.

MM: Com'è iniziato tutto?

KP: In principio fu un minatore. Un uomo nero avvolto nel fumo bianco. Questa immagine arrivava da un mondo che conoscevo appena, e mi ha ossessionato per mesi finché ho deciso di arrendermi e scriverne. “La foto mi guardava” non è solo un titolo, né un’asserzione, ma semplicemente la prima frase del primo pezzo nel mio libro. Il minatore dall’est dell’Ucraina guarda direttamente in camera, guarda verso di me e fuma. Ha gli occhi coperti dal fumo bianco, ciò che rende il suo sguardo inintelligibile. Ma quello sguardo mi ha letteralmente obbligata a scrivere. Ho cominciato a scrivere pezzi sulle fotografie per via di questa foto, per quello sguardo. Era l’inizio della guerra in Ucraina, nel 2014.

MM: Quel filo di fumo si dipana come la storia che dal 2014 ci porta all’Ucraina di oggi, colpita dalla terribile aggressione russa. Cosa si prova a essere ucraina, oggi, vivendo in Europa?

KP: Dall’inizio della guerra, nel febbraio ’22, sto scrivendo solo della guerra.
Un umile esempio del fatto che la guerra non viola solamente le case e le vite delle persone che vivono in quel paese, ma anche la gente come me, perché non posso quietamente scrivere del mio fragile mondo mentre ho di fronte quell’aggressione mortale.
All’epoca era già assurdo, incomprensibile. Io, che vivo in Germania, ero scioccata e ammutolita da quegli eventi, che gli europei si ostinano a chiamare “la crisi”.
L’inizio è stato segnato, per me, dall’impossibilità di accettare il ritmo della Storia. Il minatore nella foto stava resistendo alla Guerra semplicemente compiendo il suo duro lavoro e mi guardava domandandomi “Dove sei, tu? Dove siete tutti voi?”. E noi eravamo impotenti, non potevamo fermare la Guerra anche quando questa era ancora poca cosa, se paragonata a quella che oggi la Russia sta portando avanti contro l’Ucraina.

MM: E questo ha messo in moto una riflessione sull'atto del guardare come modo di interagire con la storia e con il mondo?

KP: Sì. Più tardi avrei capito che guardare attivamente è un processo etico
Raramente scrivo di immagini che ritraggono persone che guardano in camera. Un uomo anziano stava in mezzo alla strada interrotta, a Praga, nel 1968, durante l’invasione sovietica; un’altra donna anziana era seduta sulla giostra, sospesa nel cielo. Ma non è solo questo ciò che intendo quando dico “la foto mi guardava”: a volte le foto sostituiscono parole, domande, enigmi, varchi temporali, prove. Può essere una fabbrica ipnotica, una folla riunita per un funerale nella New York del 1911, linee rosse enigmatiche, polaroid alterate che ritraggono donne, una nuvola che suscita un’epifania o la coppia evanescente formata da una casa che brucia e un albero che brucia, nel 1941. Giuro che una volta ho accidentalmente scattato una foto di un unicorno che mi guardava. Tutte queste immagini chiedono la mia risposta.

La piccola Katja con suo padre

MM: La nobile arte dell'ecfrasi è stata smarrita a lungo. Ma lei l'ha coltivata con pazienza. Quando ha scoperto che scrivere di forme d'arte diverse era un modo valido per esprimere sé stessa?

KP: Ho capito solo quando il libro è stato pronto che in un certo senso quel che io faccio è umanizzare le foto.
È più un dialogo, una risonanza fra me e loro che non il frutto della mia volontà o di una mia decisione.
Qualcosa mi parla, mi attrae, risuona in me, mi chiama con una bellezza dolorosa o disturba e non mi lascia in pace. A volte ricevo foto dai miei amici, così che siano già “calde”. L’amicizia allarga gli orizzonti.

MM: … e scrivere? cos'è, per lei, scrivere?

Scrivere è un processo di comprensione che aiuta a scoprire strati di desiderio.
Per certi versi, è simile all’incontro con una persona: ne sei attratto, ne sei segretamente richiamato, ma solo un adeguato investimento di tempo può avviare un dialogo che, strada facendo, si trasformi in amicizia o amore. È un processo attivo e di reciprocità. Coi miei piccoli testi replico il processo di sviluppo e stampa che caratterizzava la fotografia analogica. Per sviluppare una pellicola, si ha bisogno di tempo, di un ambiente estraneo e di una camera oscura.

La famiglia di Katja Petrowskaja in una foto degli anni '70

MM: Le riporto una citazione tratta da Modi di vedere di John Berger. “Si potrebbe essere tentati di semplificare dicendo questo: gli uomini agiscono, e le donne appaiono. Gli uomini guardano le donne. Le donne guardano sé stesse mentre sono guardate. Questo determina non solamente la relazione fra uomini e donne, ma anche quella delle donne con sé stesse. Il sorvegliante delle donne in sé stesse è maschio: la sorvegliata femmina. Quindi, lei si trasforma in un oggetto e, in particolare, oggetto di visione: una vista”. Può legarsi, questa riflessione, a ciò che lei ha scritto?

KP: Penso che solo un uomo potrebbe dire una cosa del genere. 
Dal punto di vista della storia dell’arte tutto questo ha senso, in realtà. Ma chi produce questo tipo di generalizzazione dev'essere una persona che si prende davvero troppo sul serio.
In questa prospettiva, ricordo il titolo intelligente e spiritoso di un libro di Siri Hustvedt, Una donna guarda un uomo che guarda le donne. … vedete? Mi fa proprio arrabbiare 😊.
Ma la verità è che io mi dimentico di "mappare" me stessa attraverso il genere, o l’agenda politica, o l’etnia, il colore o la biografia. Mea culpa.
Naturalmente, queste cose sono tutte importanti, ma non ci si può ridurre semplicemente a queste. E, nel caso, in quale misura?
Non so se sia sempre importante fissare la tua propria identità per poter capire “l’altro”, chiunque esso sia. Ma al giorno d’oggi, purtroppo, questa è quasi una regola.


MM: Una foto di Francesca Woodman colpisce per il modo in cui ripropone un tema di sapore mitologico, e il suo testo vi innesta una riflessione profondamente contemporanea.  

KP: In effetti, ho scritto su una foto enigmatica di Francesca Woodman: quel che noi vediamo è il bianco corpo di una donna e un cigno che galleggia accanto al suo ventre.
C’è il mito di Leda con il cigno, ma cosa sta accadendo, realmente? A quale tipo di metamorfosi stiamo assistendo? Anni dopo averne scritto, ho realizzato come avessi composto questo testo nel mezzo delle battaglie condotte dal movimento #metoo. Non era un motivo consapevole, naturalmente. Posso però immaginare che si trattasse di una mia risposta alla contrapposizione binaria che stavamo cercando di definire nel nostro discorso, incluso il binario morto “oggetto-soggetto” di cui parla John Berger.
Ma attraverso questa incredibile foto riesco a pensare a certe cose: a volte è stato importante riflettere sulla mia femminilità, come nel brano “Infanzia rivisitata”, la foto nella quale una fotografa georgiana stava “cercando” sua madre. Stranamente, riprendendo alcuni passi de La camera chiara di Roland Barthes, una donna si trova in un processo di identificazione completamente differente se lei, figlia e non figlio, sta cercando sua madre. Forse ho davvero fatto quel che Berger racconta, a volte. Lui ha espresso molte osservazioni veramente profonde, ma come donna devo ammettere che preferisco coltivare una percezione mitologica dei legami e dei sensi. Sulle questioni "sospese" mi sento spaventata dalle posizioni fisse.

MM: Le storie di foto che lei ci racconta coinvolgono spesso la storia del momento e del modo in cui lei ha incontrato le foto per la prima volta. Quindi, in un certo senso, il suo libro potrebbe anche essere descritto come una storia sul tempismo e sul modo in cui le circostanze possono portare diverse sensibilità a costruire una storia attorno a un oggetto. È d’accordo?

KP:
Sì, questa volta sono completamente d’accordo: la storia spiega le ragioni per cui uno sceglie qualcosa invece di qualcos'altro, e queste casualità a volte governano il nostro destino.
A volte è come una “finestra metafisica” – non ricordo chi abbia inventato il termine, forse Borges? – qualcosa che "si apre" attraverso la foto, in maniera inaspettata.
Questo approccio alla foto, a volte agito in modo casuale, dà forma all’unicità, libera la foto dal “rumore” del quotidiano e nello stesso tempo vi rimane impresso. E può accadere che una foto non sia importante solo in quanto immagine, ma per il modo con cui ci si è arrivati. Avvicinarsi alla foto è già di per sé un processo alla Blow up … ah, quanto ho amato questo film, tanti anni fa!

MM: Ci racconta di qualche "incontro" particolarmente intenso fra lei e le immagini?


KP
:
Non dimenticherò mai del modo in cui, per puro caso, nella Chinatown di New York, scoprii un libro sulle piante di Chernobyl, o del modo in cui la donna con il cigno emerse nel bel mezzo di un parco, in Svezia, circondata dalle foglie dorate d’autunno, O, ancora, le foto delle rovine della piazza principale della mia città natale (Piazza Maidan a Kiev, NdR), trovate in casa, e le foto di un mercato delle pulci speditemi da persone che avevano vissuto accanto al muro di Berlino e che mi avevano conosciuta leggendo un mio saggio. Ma ho anche ricordi enigmatici: ricordo una foto che è l’ultima testimonianza di persone che si avviavano al massacro e che vedemmo poche ore prima che venissero uccise. Ricordo di aver tenuto questa piccola foto fra le dita e di come sembrava che quella reliquia bruciasse nelle mie mani. Allo stesso tempo però, so di ingannarmi e che non ho mai veramente tenuto quella foto fra le mie mani, avendola semplicemente guardata sullo schermo del mio PC, ingrandendola e rimpicciolendola.
Quindi tendo a scrivere di oggetti anche quando li vedo attraverso lo schermo di un computer e questa – me ne rendo conto – è una contraddizione.
Ma alla fine, quel resta sono piccole storie. E le storie tendono a creare la Storia.


MM: Grazie, Katja Petrowskaja. Un'ultima domanda, prima di salutarci. Qual è la cosa più importante che ha imparato su sé stessa, scrivendo di fotografia?

KP: Alcune cose sono imprevedibili. Anche se riposano nel passato.

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La posta della redazione

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Katja Petrowskaja studia Lettere e Slavistica all’Università di Tartu, in Estonia, e dopo una serie di studi di ricerca alla Stanford University e alla Columbia University, si laurea a Mosca. A quasi trent’anni si trasferisce a Berlino, dove inizia a lavorare come giornalista per testate russe e tedesche. Vincitrice nel 2010 di una borsa di ricerca della Fondazione Robert Bosch per la realizzazione della sua opera prima, nel 2013 si aggiudica il premio Ingeborg Bachmann con un capitolo del suo romanzo d’esordio Vielleicht Esther, pubblicato per intero nel 2014 (Forse Esther, Adelphi, 2014). Salutato dalla critica come un capolavoro, nel 2014 il romanzo ottiene una nomination al premio della Fiera del libro di Lipsia e l’ aspekte-Literaturpreis, e nel 2015 il premio Ernst Toller e il premio strega europeo.

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