Come il protagonista di una splendida commedia di Nino Martoglio, Emiliano Ereddia dev’essersi mosso dalla sua Sicilia per respirare meglio “L’aria del continente”. Della sua natìa Vittoria, questo bravissimo scrittore ha assimilato molto bene la pianta a scacchiera: dopo essersi inizialmente stabilito a Bologna per studiare, infatti, Ereddia ha compiuto quella che potremmo chiamare “la mossa del cavallo”, riavvicinandosi a latitudini più meridiane, incantato dalla fascinazione di una Roma mesmerica e contraddittoria.
Se però dovessimo raccontare Emiliano Ereddia, classe 1977, attraverso un’allegoria scacchistica, forse il pezzo più adatto a rappresentarne il talento versatile sarebbe l’alfiere: le qualità scrittorie di Ereddia, infatti, sanno esprimersi in contesti decisamente eterogenei e apparentemente “obliqui” gli uni rispetto agli altri, essendo il nostro romanziere anche autore televisivo (fra i format più famosi ai quali Emiliano ha lavorato negli ultimi anni, ci sono Masterchef e Celebrity Hunted).
Il suo primo romanzo Per me scomparso è il mondo (Corrimano Edizioni) è del 2014. Oggi arriva Le mosche (edito da Il saggiatore).
Ciò che si può raccontare del romanzo senza che il (grande) piacere della lettura ne venga compromesso è più o meno quanto segue: l’omicidio di Julian Massa e la sparizione della sua compagna, Amanda Kerr, figlia dell’ambasciatore americano, innescano una brutale caccia al colpevole nei quartieri popolari di una Roma mai tanto contemporanea e stratificata. Una metropoli le cui mosche, gli ultimi tra gli ultimi, non possono fare altro che assistere ai meccanismi iniqui e implacabili di negazione della verità da parte di un’altra umanità, più potente e prevaricatrice.
Ed è in un viaggio angosciante, crudo e cinico all’interno di una realtà spietata, abbrutita che Ereddia, con la sua scrittura incalzante e precisa, conduce il lettore, lasciandolo senza fiato tra le ragnatele degli sconfitti. Una scrittura che Massimo Carlotto ha definito “visionaria, smisurata, traboccante” capace di trascinare “il lettore nel vortice di una storia bella, inebriante, unica.”
Roma, quartieri popolari: in un appartamento sudicio e umido, indistinguibile tra decine di altri nei fatiscenti palazzoni che lo circondano, un uomo agonizza a terra col ventre squarciato. Il suo nome è Julian Massa e il suo omicidio è solo l'ultimo anello di una catena di misteri.
Ciao, Emiliano! Come ci si sente nel sapere che Massimo Carlotto ha definito il tuo giallo, "Le mosche", un caso letterario?
Sono orgogliosissimo e anche stupito, perché non mi aspettavo che Massimo Carlotto amasse così tanto questo romanzo. Mi ha fatto enormemente piacere che abbia colto l’aspetto più profondo che riguarda il lavoro tecnico sul linguaggio e sulla costruzione della complessità della storia.
All’interno dell’umanità multiforme che viene presentata nel romanzo, troviamo un personaggio dal nome profondamente evocativo: Assenza.
Assenza è l'incarnazione della mosca. In realtà, le mosche siamo noi e qualsiasi personaggio che non partecipi attivamente a un fatto di cronaca o a un fatto storico ma che concorre nella costruzione di quella che è la verità attraverso una visione periferica delle cose. Le mosche cerca di ricostruire questo processo di negazione della verità che purtroppo in Italia vediamo fin troppo spesso: dalla verità creata dalla procura e dalla verità giornalistica raccontata dai tg e dai giornali, alla verità della strada.
Accanto ad Assenza, fai muovere in un valzer di destini alcuni personaggi dai nomi che non sembrano scelti a caso: Francesina, Agata, il giornalista Mainenti…
Quando scegli il nome di un personaggio, devi pensare alla direzione in cui ti porterà: i loro nomi ricordano al lettore chi sono e qual è il loro ruolo nella storia. Per esempio, Mainenti in siciliano vuol dire “mai niente” e rispecchia la leggerezza del personaggio nell'affrontare sia il lavoro sia il racconto giornalistico, divenendo oggetto delle pressioni dei vari poteri che lo attorniano.
…e poi c’è l’ispettore Canè…
L'ispettore Canè è un poliziotto che usa la violenza per ottenere la verità e non si fa scrupoli a incriminare anche gli innocenti, un ispettore che esegue gli ordini di una procura altrettanto spietata nel rinvenire la verità. È il perfetto braccio armato di una giustizia nera, ambigua e corrotta.
Il tuo è un thriller ambientato nei quartieri popolari, terra degli ultimi tra gli ultimi...
La periferia raccontata ne Le mosche è una periferia già gentrificata, su cui il centro del mondo ha messo le mani. Le mosche sono coloro che appartengono a questa periferia e che, intrappolate in una ragnatela senza fine, incontrano i ragni che appartengono a un altro tipo di umanità e a un altro modo di vivere. È il racconto della periferia di una grande città, il racconto di quegli ultimi che vengono schiacciati dalla negazione della verità e non hanno gli strumenti giusti per potersi difendere da una macchina così aggressiva, il racconto di un riscatto che non arriva.
La storia narrata è cruda, amara, cinica e descrive le tante difficoltà emotive ed intellettuali di un uomo alla soglia dei cinquant’anni, allo sbando, preda senza scampo di scelte spregiudicate e di una società ingorda e spietata sempre più in crisi, a cui non vuole più dichiarare una resa incondizionata.
Da "Le mosche del capitale" di Paolo Volponi a "Il signore delle mosche" di William Golding, quanto ha influito la letteratura sulle tue mosche?
Le mie mosche sono di ispirazione goldinghiana: sono gli esseri umani che, così come le api producono il miele, producono il male. Nel racconto de Le mosche, la gamma umana rappresentata – dall’estrazione socioculturale ed economica più alta a quella più bassa - si arrabatta per sopravvivere in condizioni ambientali ed economiche di abiezione. Ma lo fa senza speranza: perché le mosche rimangono ingarbugliate nella tela che, in questo caso, è la tela della loro stessa esistenza.
Dalla tua Sicilia - dalla quale sei andato via quando avevi 18 anni - alla grande città: che aria si respira nel continente, per Emiliano Ereddia?
Come si dice da noi in Sicilia: “cu nesci arrinesci”, chi esce, riesce. I siciliani hanno un legame viscerale con la terra, il mare, i nostri paesaggi…ma sono viaggiatori. Andare via, per me, è stato un gesto abbastanza naturale: ho viaggiato tanto e ho vissuto in tante città italiane fino a fermarmi a Roma, la città che meglio di altre rappresenta la vita sulla terra. È caotica, violenta, difficile e poi, improvvisamente, è sublime; sento di vivere in un posto che ha tutta la complessità e la completezza del mondo. Tra l’altro, il siciliano a Roma è raccontato anche nel mio romanzo, perché i miei protagonisti sono quasi tutti di estrazione siciliana.
Ma un giorno tornerò a casa raccontando una storia, mi concentrerò su quella terra, su quel mare, su quei paesaggi viscerali e lo farò insieme alla letteratura: questo sarà il mio ritorno a casa.
E noi siamo pronti a scommettere che il ritorno a casa di Emiliano sarà segnato da una mossa imprevedibile e magistrale, uno scarto laterale come quelli cui questo narratore ha mostrato di essere capace. La partita è ancora tutta da giocare, ma Emiliano ha già la Vittoria in tasca.
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