Vi avverto: stavolta pascoliamo fuori dal campo della saggistica, e anche dalle praterie del non fiction narrativo, perché Storia aperta è un romanzo vero e proprio, seppure atipico, intessuto com’è di lacerti di storia e frammenti documentali. Scelgo di parlarne qui perché l’autore, come e più che nel precedente Mio padre la rivoluzione, usa la scrittura narrativa per trascinarci nel fiume lutulento delle memorie, per interrogarsi, e interrogarci sul rapporto che possiamo avere con la grande parabola della sinistra comunista, col Novecento e, più in generale, con la storia - nel nostro “tempo senza storia”.
L'educazione fascista, l'amore con Michela, l'Etiopia, il fronte greco-albanese; la consapevolezza, l'adesione al comunismo, la Resistenza; la militanza politica che assorbe ogni altra vocazione, anche quella di padre, di scrittore; il terrorismo, poi il destino del partito, le verità, la perdita di identità; la vecchiaia come un «brodo sugli occhi» attraverso cui cercare di credere ancora.
Pietro Migliorisi, il protagonista, è un alter ego costruito come un mosaico: nella sua vita immaginaria confluiscono pezzi di esistenza e scrittura di tanti veri militanti del Pci, da Franco Calamandrei a Ruggero Zangrandi, ma soprattutto rivive, reinventato, Alfredo Orecchio, il padre dell’autore, che attinge a piene mani dai suoi scritti, editi e soprattutto inediti (manoscritti, raccolti di poesie, diari), per rimetterlo al mondo impastando le sue parole alle proprie, in scrittura sovrabbondante, barocca, a tratti ipnotica nel martellare delle ripetizioni (con qualche eccesso sperimentale negli inserti dedicati alle vite “anelastiche” di alcuni comprimari).
È la scrittura che serve per raccontare il labirinto di Migliorisi, il “bambino diacronico”, un uomo incerto, irresoluto, sballottato tra rabbia e paralisi, la sua frammentazione interiore e le fratture della sua vita. Fascista aggressivo ma di scarsa convinzione, nel fuoco della guerra arriva a tramare contro Ciano e dopo la prigione e la Resistenza diventa “rosso”. In cerca di un padre più accogliente di quello che l’aveva spedito a combattere nel Corno d’Africa si affida a Togliatti e Stalin (buona fortuna!), ma il partito diffida di lui e della sua vocazione di scrittore, lo sottopone a prove e umiliazioni, mentre la moglie lo abbandona (perché lui ha scelto il partito, dice, ma il vero motivo - colpo di scena – è svelato solo alla fine).
Nella redazione del “giornale nuovo” sembra riscattarsi, tra le cronache sul caso Montesi e le inchieste sui golpe, ma le tempeste della storia, dal ’56 Ungherese al terrorismo e al crollo finale, non gli danno requie. In Storia aperta il corpo a corpo con un padre assente si mescola al complesso dell’abitante di un presente fatto di pixel, capace solo di raccattare e catalogare il passato, verso tutti i “bambini diacronici” che nella storia si gettavano a corpo morto, la facevano e ne erano distrutti, fino alla domanda sgomenta dell’ultima riga, riproposta in copertina: “Ma adesso la verità chi la racconta?”.
Abbinamento per buongustai: ottimo con il pamphlet di Adriano Prosperi, Tempo senza storia. Per chi desidera sapori più ricercati, le riflessioni di Yerushalmi sulla necessità di una storia che sia “memorabile” – per il suo legame profondo con la vita – in Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica (Giuntina).
Gli altri passati di letture
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| Minimum Fax, 2017Di
| Einaudi, 2021Di
| Giuntina, 2011Di
| Carocci, 2006Di
| Il Saggiatore, 2011Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
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