L’Antonia, per Manfredi, inizia dove finisce la nostalgia.
La parola nostalgia deriva etimologicamente dall'unione di due parole di origine greca: nostos, “ritorno a casa” e algos “dolore”, che insieme diventano “il dolore del ritorno”.
Quello che Manfredi compie sin dalle prime pagine di questo libro, Sembra che presto annegherò, esordio di Filippo Ronca uscito per Mondadori, è un nostalgico viaggio di ritorno verso casa. Verso l'Antonia che è anche casa.
Manfredi è innamorato di Antonia e in questo romanzo ci racconta il suo amore per lei, ma soprattutto cerca di spiegare che cos'è, l'amore. Così quando Antonia gli chiede se è davvero il caso di continuare, si resta senza fiato. E proprio allora scatta il romanzo, i tempi accelerano, si sovrappongono, si incrociano continuamente.
Un viaggio che, però, non ha corpo né movimento. E noi, che ci ritroviamo a inseguirne la traiettoria, presto lo scopriamo una rincorsa della mente. Perché il punto di partenza coincide con il punto di arrivo.
Tutto parte da un sussurro. Sussurro è il titolo del primo capitoletto: «questo sbuffo passa fra le stecche della tapparella, filtra sotto le lenzuola e riempie il cuscino sotto la mi testa: è tutto il rumore che la gente produce per vivere, è tutto il rumore del mondo, che finisce nel mio cuscino».
A partire da questo respiro del mondo che giunge dal di fuori, osserviamo infatti una prima persona immersiva, a tratti ossessiva, prendere la rincorsa, allontanarsi da sé, disperdersi nelle proprie sensazioni esterne, al solo scopo di assaporare l'attesa (o meglio, il piacere dannunziano) del ritorno.
Io, quando esco a correre, io corro fino a scoprire il ritorno
Come Palomar di Italo Calvino, questo io errante nei propri pensieri sembra puntare il proprio sguardo telescopico sui dettagli del mondo e spostare, senza posa, la propria attenzione sulle cose che gli capitano sotto gli occhi, nell’udito o alla mente così come gli arrivano, senza mai fermarsi «che se mi fermo, poi, non mi allontano più, e se non mi allontano non posso ritornare». Eppure resta fermo, inchiodato al proprio letto.
Così adesso, da questa domenica ancora sdraiata sul letto matrimoniale, io non vedo l’ora di ritornare. Eppure non ho fatto alcuna corsa, nessun viaggio, non sono ancora partito, non sto pensando alla marmellata, sono calmo, sul mio letto, un libro rosso in mano, la colazione consumata sul comodino, il telefono ancora in carica. Mi sento tranquillo in mezzo a questo luglio. Guardo fuori, la finestra aperta, tutto, però, tutto mi sembra un ritorno. I tetti, gli alberi, i fili del telefono che ritaglino il cielo, tutto come se lo vedessi in un ritorno
Quando nella camera entra l’Antonia, questa sensazione di dover ritornare, in questa domenica, da qualche parte, improvvisamente svanisce.
C’è solo l’Antonia a colmare tutta la distanza della nostalgia.
Quando abbiamo iniziato a convivere io avevo paura, i miei rumori, i miei odori, io parlo nel sonno?, le cose che lascio sul tavolo in ingresso, le mie ossessioni per Marisa Laurito, le mie collezioni, avevo paura […]
Anche la paura è un sentimento che rivela una mancanza e che, ancora una volta, l'Antonia sa colmare. La figura dell'Antonia si delinea così solo nell’incontro di un pieno (lei) con un vuoto (quello di lui).
Appoggiare il suo viso al mio petto, l’Antonia lo avrà fatto innumerevoli volte, eppure quella sera lì, la prima sera in questa casa, che è la nostra casa, il petto come un secchio calato in un pozzo, mi si è riempito di Antonia. Come d’improvviso i miei polmoni fossero cardo e decumano e sento l’Antonia che diventa piazza, che diventa sole, folla, brusio, vita, che diventa vento fresco, colonnato e ombra.
L’amata, agli occhi di Manfredi, perde i contorni e diventa il frutto di una fusione panica con il mondo; si estende tanto nello spazio, fino a occuparlo tutto «quando l’Antonia entra in questa stanza, sembra che ci sia Antonia fino al soffitto» quanto nel tempo «e anche il nome Antonia, a me sembra una stagione, la stagione che attendi tutto l’anno».
Di lei, quindi, conosciamo solo la sua singolare capacità di saper tenere insieme, come un fermaglio, l’essenza scomposta di lui. Per questo, quando per la prima volta le sente pronunciare le parole «La nostra storia è finita, Manfredi» (o altre parole ancora, ma che la sua mente riassume così), ecco che egli vede se stesso e il mondo andare in pezzi, sgretolarsi.
Quel mondo che, per Manfredi, è l'Antonia.
Così, le parole dell’Antonia, in mezzo a questa domenica che profuma di tranquillità, creano un buco nella parete che io inizio a guardare, e più lo guardo, più dimentico che giorno è oggi, dimentico tutta la casa, la città, dimentico anche l’Antonia quasi
Sembra finita ma, a questo punto, la storia è appena iniziata. Intorno a questo "buco", ecco che la scrittura diventa cucitura e la trama diventa di tessuto, come un rattoppo metafisico alla crepa dell'esistenza di Manfredi. Tutto finisce e tutto comincia, dopo l’addio dell’Antonia.
Che è l'amata, la casa, il mondo intero. Tutto, e poi niente. Da qui, la rincorsa di Manfredi diventerà semplicemente una corsa, questa volta a vuoto.
…e penso solo: Ma quand’è che farà male? Vedo il buco, nella parete di questa giornata, ma non sento più nulla, non sento l’impatto, non sento. Possibile? Forse è solo colpa della domenica
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