Noi, che abbiamo solo il talento di vivere, dobbiamo pagare le nostre bollette
Cominciamo dalle parole, come sempre quando si tratta di libri. Lasciamo stare per un attimo le frasi ritmate, quasi musicali, in cui si ravvisano endecasillabi – i più evidenti: quando trovate un periodo che suona così bene pur nell’anonimato del suo contenuto, contate le sillabe –, novenari e via discorrendo. Qui entreremmo in un terreno specialistico su cui non mi muovo con l’agilità che vorrei. Ma cominciamo dalle parole vere e proprie, quelle con cui Davide Orecchio dipinge il mondo in cui il suo personaggio si muove: città di fuoco, città di acqua, malattia che toglie il respiro. Sembra una favola. E invece, pensate un po’, racconta del mondo in cui viviamo, oggi, adesso, l’altro ieri al massimo.
In un'Italia trasfigurata in un paese surreale e metafisico, il protagonista del racconto fa i conti con l'oblio e la salvezza che le relazioni e le storie possono rappresentare. Una prova di grande letteratura che indaga il nostro mondo senza tacere le sue assurdità e contraddizioni.
Succede che, in una città del fuoco, qualcosa bruci. L’odore del fuoco – non del fumo, né di ciò che brucia, si badi bene – è nelle narici di chi racconta: lo conosce bene, e sa che c’è un odore diverso a seconda di cosa il fuoco divori. È un po’ come la storiella (smentita, mi raccomando) dei nomi diversi dati alla neve dagli eschimesi. In queste città del fuoco ci vorrebbero tante parole per descrivere le fiamme, il problema è che non esistono.
Ed era un problema che alimentava il loro odio e la sensazione di assedio, questo di non trovare i nomi per ciascun odore del fuoco, perché chi è senza parole è spesso indifeso oppure, al contrario, chi è senza parole aggredisce
Tanto che quando il protagonista sente quell’odore, per prima cosa sbaglia. Vi invito a leggere l’elenco della spazzatura che crede stia bruciando fuori dalla sua finestra: una rassegna di rifiuti lunga una pagina che rende letteratura il rifiuto, qualcosa che si fatica a immaginare possa trovare posto in un libro. E invece le parole possono anche questo. Ma non è un cassonetto a bruciare, nella notte. Solo il mattino dopo si scopre che le fiamme hanno inghiottito una casa – un basso, a dire il vero – e una donna, Bianca. Una donna che non aveva famiglia né amici, e per questo condannata dal rogo a cadere in quest’oblio fiammeggiante.
Poi invece un amico c’è, Gilberto, che la piange fuori dalla casa incendiata. E lui racconta di averla conosciuta in ospedale, mentre entrambi avevano quella malattia che toglie il respiro e che è il covid, forse, ma forse non esiste davvero. Gilberto è l’unico che fa esistere Bianca – e lo faceva anche quand’era viva. Ma in Qualcosa sulla terra non è la solita faccenda del «nessuno se ne va finché qualcuno lo ricorda», no. È un fatto più pregnante, ontologico, direi. Un’ontologia che viene fuori, ancora, dalle parole: il verbo esistere è usato da Orecchio transitivamente.
Lei esisteva me e io la esistevo
Sono appena sessanta pagine, e ogni frase dev’essere scolpita. Questa, per esempio, è immobile come solo le grandi verità sanno essere. Ci sono persone – e animali – che esistono qualcun altro, non che semplicemente lo fanno esistere: l’esistenza deriva dalla relazione. Vi è connaturata, inscindibile. Ma anche adesso sto scrivendo tecnicismi filosofici.
C’è anche la storia di un gatto. Gilberto racconta delle avventure di Alberto, il suo gatto, e di come abbia conosciuto Lisa, la gatta di Bianca, e insieme abbiano deciso di andare a cercare i loro padroni. Come in tutti i libri brevi, che ci conquistano proprio per la loro brevità, a noi svogliati o perennemente di corsa, racchiude un mondo complessissimo. E si può leggere in metro mentre si va al lavoro e finirlo prima di arrivare in ufficio, ma poi la questione è che non si può fare a meno di ritornarci e andare più a fondo. Almeno un paio di volte, se si vuole cominciare a capire.
È sempre bello affidarsi a una storia
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