Se avete 32 anni, per favore non leggete quello che c’è scritto tre righe più sotto. Potrebbe deprimervi.
Facciamo così, conto fino a tre e saltate direttamente al rigo successivo, pronti? Uno, due…e tre.
Melville alla vostra età aveva già scritto Moby Dick.
Lo sapevo, avete letto.
Ora vi porterete (come me) la condanna che a ogni compleanno ripenserete a Melville e vi affliggerà l’idea di non aver concluso nulla di buono nella vostra vita, mentre il tempo, come in un quadro di Mario Bros, scorre in avanti senza la possibilità di tornare indietro.
Moby Dick, per intenderci, è considerato uno dei capolavori della letteratura americana.
Spaventa il libro, lo so bene. Entrare in libreria e soppesare un bel volume di 720 pagine non è l’approccio giusto per chi ha una vita frenetica e movimentata. Ma quello che posso dirvi è che farete spazio nel vostro zaino per portarvelo dietro e spazio nella vostra vita per avere tempo di proseguire la lettura.
Inizia con una forza disarmante. Un incipit tanto semplice quanto potente:
“Chiamatemi Ismaele”
Melville comincia il suo romanzo instaurando uno strano patto tra il lettore e il protagonista.
Ismaele è testimone e narratore di quello che accade sulla nave Pequod, la baleniera in viaggio sulle acque dell’oceano Atlantico.
Tutto l’equipaggio della nave è alla mercé del capitano Achab che è ossessionata da Moby Dick. Ossessione che gli è già costata una gamba.
Viviamo la snervante attesa assieme al capitano e, pagina dopo pagina, cresce anche in noi il desiderio dell’incontro. Covando insieme eccitazione e paura.
L’esperienza marinara di Melville rende il romanzo un sincero elogio alla vita sui mari.
Moby Dick ha influenzato una generazione di scrittori nati un secolo dopo, le avventure del capitano Achab hanno ispirato molti racconti marinari e non.
Dal capolavoro di Melville, film, canzoni, quadri e perfino il nome della famosa caffetteria Starbucks prende il nome dal primo ufficiale della nave.
Non male per un libro che all’inizio non ebbe successo e che fu stroncato dai critici del tempo definendolo un misto mal composto di romanticismo e realtà.
Lasciate che vi dica una cosa, però.
Moby Dick non è solo la storia di una caccia alle balene, non è solo la storia del capitano Achab e della sua ossessione. In questo romanzo c’è la fragilità umana, la vendetta e l’eterna lotta dell’uomo contro la natura.
Un libro pieno di riferimenti marinari e di minuziose descrizioni; dialoghi bellissimi e lunghi silenzi; Pagine ricche di riferimenti biblici e simbolismi.
È un viaggio tra i mari, ma anche nell’oscura inquietudine umana.
Non è solo un viaggio in avanti, e anche un viaggio verso il basso, scende nel profondo, dove abita il leviatano.
Rubo le parole di Melville quando parla dell’abisso:
Dove immemori nomi e flotte arrugginiscono e taciute speranze e ancore marciscono.
E se avete 37 anni potrebbe consolarvi il fatto che io, alla vostra età, non ho scritto una della più grandi recensioni su Moby Dick.
Buon viaggio nell’abisso.
La "materia" di cui tratta "Moby Dick" non è che un'abnorme espansione di un banale antefatto. Un incidente di caccia. Un episodio, dunque, assai frequente all'epoca della narrazione in un mestiere così rischioso come quello della caccia alle balene.
Voglio girare dieci volte intorno a questo smisurato globo, sì, e mi ci tufferò dentro, ma la devo ammazzare!
E proprio di temi smisurati parla questo libro. Parla della forza della natura, di quella dell’uomo, del destino, del divino e di moltissime altre cose che sembra impossibile poter misurare. Ma Melville le misura tutte, le calibra e le riassume in un unico grande nemico: una grossa e feroce balena bianca.
L’autore parla dell’animo umano, e lo fa raccontando della baleniera Pequod, con uno slancio epico che non ha nulla da invidiare ai poemi omerici: la grandezza del mare, l’intensità della ricerca, la minuziosa descrizione della vita in nave che solo qualcuno che l’ha sperimentata avrebbe potuto scrivere. E il capitano Achab, con la propria ossessione nel cercare e uccidere l’animale che gli strappò una gamba, aiuta Melville a imprimere nella letteratura il lato combattivo del genere umano. E lo fa gridando al cielo il proprio desiderio: non pregando, ma lottando, in mezzo all’acqua, al sale e al freddo.
L’autore però sa anche sussurrare, e lo sa fare benissimo. Ai propri malinconici e tormentati personaggi fa bisbigliare gocce di filosofia in tutta privacy, nel mezzo della notte, facendoli dialogare con delle reti, con l’albero maestro, o con una pipa: “-Ma come mai il fumo non basta più a placarmi? Oh, pipa mia, deve andarmi proprio male se la tua magia è sfumata! Senza accorgermene sono rimasto qui a stufarmi, invece che a spassarmela… Già, e per tutto il tempo ho fumato controvento, come un imbecille; […] Che me ne faccio di questa pipa? Questo oggetto è fatto per la serenità, per mandare tranquilli vapori bianchi tra miti capelli bianchi, non tra tormentate ciocche grigio-ferro come le mie. Non fumerò più…”.
“Moby Dick” è una storia tanto grande e tanto assoluta che il lettore non può che vederla nei panni di Ismaele, un marinaio “col problema dell’universo che gli frulla in testa”, che assiste ad una caccia al senso della vita con stupore, paura e ammirazione. “Moby Dick” è, in tutti i sensi, un viaggio quasi malvagio, quasi empio: il lettore salito a bordo del Pequod non ne scenderà mai del tutto, e rimarrà col capitano Achab fino all’ultima pagina: insieme a lui, “colpirebbe il sole, se lo insultasse”.
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