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La fabbrica di Hiroko Oyamada

Si sa, la fabbrica è una grande catena di montaggio dove gli ingranaggi e chi li muove sono un meccanismo perfetto, a tal punto che ciascuna delle sue parti spesso non conosce il senso delle proprie azioni. Ognuno occupa lo spazio di una casella ben funzionale per l’intero ecosistema. Nulla è legato alla creatività e alle leggi caotiche del caso.

Ma se la fabbrica è grande come una città, con quello che ci si aspetta da una vera metropoli, tutto prende un’altra piega. Gli orizzonti brillanti della narrazione ti avvolgono nel panorama e ne inizi a far parte in ogni loro trasparenza.

La fabbrica
La fabbrica Di Hiroko Oyamada;

La fabbrica è grande come una città e chi ci lavora non sa nulla di come sia stata creata, né che cosa ci sia oltre i suoi confini. Un ponte collega questo mondo a quello reale, ma nessuno dei tanti lavoratori l'ha mai attraversato: forse i tre protagonisti, le cui domande iniziano a farsi pressanti, saranno i primi.

I tre protagonisti, come dentro un grande orologio atomico, oscillano eticamente nella loro parte, ritenendosi fortunati per la neo assunzione in ‘Fabbrica’. Ma il tempo li allontana dalla realtà rendendoli stanchi e remoti di sé. Intuiscono come non si possa fuggire da quella realtà perfetta.

Così oberati di lavoro e del tutto privi di vigore

Anche la campanella che scandisce il ritmo della giornata si è agghindata a melodia polifonica. È la colonna sonora delle pause, unici intervalli per sentirsi vivi tra i rintocchi sterili delle ore che scorrono senza farsene accorgere.

Un grande ponte collega le due parti della città; se ne ha quasi un timore reverenziale per la sua imponenza.

È una metafora, lo spartiacque tra  realtà e immaginazione, uno stargate tra vero e onirico dove strani uccelli neri e altri animali avvistati ai confini della foresta manifestano la possibilità di un mondo parallelo possibile. Un ponte poderoso che lega il sud al nord ma di cui non si vedono mai le sponde.

Nella quiescenza sedata della routine non tutto procede come previsto.

Da eroi della normalità e della rassegnazione i nostri protagonisti iniziano a porsi qualche quesito di troppo. Quel punto interrogativo in fondo della frase «che ci faccio qui?» diventa un macigno smisurato.

Ci si sente inadeguati sulla routine di un carillon incantato nella sua folle e vana rotazione.

Più cercavo di riflettere e più non capivo, tutto mi appariva così disconnesso, perché ero lì, perché ero nata?

Si chiede Yoshiko, la timorosa neolaureata che distrugge documenti per turni interi senza capire perché per un lavoro tanto stupido debba anche avere uno stipendio; mentre il volenteroso Yoshio, brillante biologo che cerca muschi per anni, non si capacita del perché gli venga richiesto. E come non affezionarsi all’instancabile Ushiyama che corregge bozze cercando di trovare errori anche là dove non ci sono, pur di sentirsi utile nel tradurre istruzioni per oggetti di cui non capisce il funzionamento.

Sui tre operai ‘usa e getta’ il tic-tac della bomba esistenziale si è innescato, ed è inevitabile la sua prossima deflagrazione.

I tre eroi della normalità apparente raccontati da Hiroko riusciranno a librare, pagina dopo pagina, sulle vertigini inaudite di una nuova vita.

Non è un caso che proprio quel ponte sia il palco scelto della redenzione: «[…] senza lottare avevo ripreso a camminare, senza rendermi conto in quale direzione muovesse la corrente e se si trattasse di un fiume o del mare… ma sentivo come una strana forza che mi attirava dal basso».

Il lavoro, con la sua zavorra di precarietà e incertezza, appare come avvolto da un senso effimero di affermazione sociale.

L’impiego, con i suoi sinonimi di occupazione ruolo e identità, diventa nel flusso del racconto un ritmo sottotraccia che risuona echi di riflessione. Un ruscello sinuoso su cui meditare per non affogare nell’incoscienza.

Passo dopo passo mi stavo inabissando nei miei pensieri, sarei mai stata in grado di risalire in superficie?

Vi confesso che ho vissuto tra queste pagine altrettanti capitoli della mia vita, in cui le regole della consistenza ti possono crollare addosso improvvisamente e liquefarsi in fragili emorragie destinate a una sete di quiete riflessiva.

Quando la somma delle nostre azioni ci costringe a ripartire da zero, è inutile contare troppo sulla nostra nostalgia, dobbiamo evolverci.

È il primo passo verso il cambiamento per non rimanere vaghi nelle ferite dell’autocommiserazione.

Ed ecco che La fabbrica, nella mia mente, è diventata una grande espressione plastica del nostro tempo e di come ci identifichiamo nella società: così preparati a decantare monologhi in una commedia stampata a cliché sulle nostre anime. Non è una lotta di classe, è la consistenza di una identità che si afferma senza rifugiarsi nella fuga di false credenze.

Abitiamo città dove gli ingranaggi, esseri pensanti, sopravvivono rassicurati dalla fede nella tecnologia e dall’incantamento di mode e falsi miti consacrati

L’alchimia del racconto ci mostra come l’esistenza possa ridursi al saper abbellire al meglio i perimetri ben arredati delle nostre gabbie dorate. Per distinguersi tuttavia occorre attuare una trasformazione interiore. Consistere fuori dalla chimica del rammarico necessita una reazione intima.

L’importante non è cercarne la formula magica ma convergere nell’alambicco… e iniziare a volare.

Come sottofondo musicale alla lettura, consiglio i brani tratti dall’album Puff the Magic Dragon di Pink Martini & Saori Yuki per le loro originali ambientazioni sonore.

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