Cosa fareste se alla soglia dei quarant’anni, tutto a un tratto le vostre certezze crollassero? Lavoro, casa, famiglia: tutto spazzato via da un destino ingeneroso con cui dover fare i conti. È ciò che accade al protagonista de L’impostore di Damon Galgut (E/O). Ma Adam Napier, a prescindere da tutto, è un privilegiato: un uomo bianco, borghese, con una casa e una vita appagante.
Dalla penna di Damon Galgut, vincitore del Booker Prize 2021, un nuovo romanzo che dal lontano Sudafrica racconta i nostri prossimi, quotidiani inferni. Non è facile cambiare vita intorno ai quarant'anni, ma Adam Napier ha deciso di provarci. E in fondo non ha molta scelta. La sua crisi è evidente, il fallimento pure.
Poi il licenziamento, arrivato all’improvviso come una «doccia fredda». Di certo non poteva aspettarsi che quel tirocinante nero che aveva formato mesi prima, avrebbe preso un giorno il suo posto. E a lui non sarebbe rimasto altro da fare che sgomberare la scrivania e accettare le scuse del suo capo. Da un giorno all’altro tutto nella vita di Adam precipita. Senza un lavoro non può più permettersi neppure di pagare la sua casa acquistata in un quartiere di Johannesburg, un tempo vivace ed esclusivo e oggi in mano alla criminalità e in uno stato di totale declino.
Adam è costretto a chiedere aiuto al fratello minore, Gavin, che in un primo momento lo ospita a Città del Capo e gli offre di lavorare con lui, arricchitosi negli ultimi anni portando avanti un’impresa edile che tira su condomini scintillanti e altri complessi di lusso. Per Gavin sono solo il successo e il suo giro d’affari a dargli la misura delle cose: cinico e calcolatore, il fratello di Adam incarna perfettamente l’immagine di un paese che sta cambiando, seppur schiacciato da un’ingombrante storia recente. L’Apartheid nel nuovo Sudafrica si rivela infatti molto più di un fantasma del passato.
In questo momento le cose vanno bene. Il paese cresce. Girano un sacco di soldi, se sai dove guardare. Hai avuto un po’ di sfortuna, tutto qui. Ma checché se ne dica, un bianco che muore di fame qui non ha scusanti
Ma Adam ha altri piani, non gli interessano i guadagni facili e con un po’ di esitazione rifiuta l’offerta del fratello perché in fondo non ha dubbi: «Voglio scrivere poesie», gli dice senza nascondere un filo di incertezza. Da ragazzo aveva pubblicato una breve raccolta di versi, ma per Adam non si tratta solo di una velleità giovanile. È un ritorno a sé stesso, e non importa che con la poesia non si paghi l’affitto come gli rimprovera il fratello stizzito.
Da allora non aveva più scritto né pubblicato nulla, ma – in cuor suo, segretamente – si era sempre considerato un poeta. Gli era sembrata più una condizione che una vocazione, soprattutto quando aveva ancora un lavoro, un lavoro diverso, normale, e cercava di farsi strada nella vita. Adesso che l’altro lavoro e la vita non c’erano più, il poeta che era in lui risorgeva
In uno sprazzo di accondiscendenza, Gavin gli offre una sistemazione in un sperduto paesino del Karoo, una regione semidesertica a circa otto ore di guida dalla capitale. Lontano dalla città, in un paesaggio dalla bellezza selvaggia, Adam può dedicarsi totalmente alla poesia. La piccola casa di proprietà del fratello è poco più di una capanna mal messa e disabitata da anni, infestata da erbacce e presenze sinistre, compreso il vicino di casa, che ha tutta l’aria di essere un fuggitivo.
La vita scorre lenta e monotona nel Karoo. La solitudine e la noia che scandiscono le giornate di Adam lo tengono lontano persino dal desiderio di scrivere. In quella cittadina dimenticata da tutti, in cui la modernità è un’astrazione se non fosse per una nuova strada che taglia in due l’abitato, le profonde contraddizioni del paese sono laceranti. La «svolta del Sudafrica» in quella landa sperduta è vera quanto le menzogne di uno slogan elettorale. Lontano dalle grandi città, disuguaglianza e ingiustizie ataviche si perpetrano come leggi di natura.
A Johannesburg o a Città del Capo si coglievano tumulto e fermento; la grande svolta del Sudafrica era evidente e tangibile. Ma lì no. Lì tutto sembrava inevitabile e naturale, preordinato come il tempo atmosferico. C’era la vecchia divisione razziale, tutti i bianchi da una parte del fiume, nelle loro proprietà ampie e costose, e tutti i meticci dall’altra, nella township, nelle loro casette gremite in mezzo a strade trascurate, piene di buche
Dopo La promessa, che è valso a Galgut il Booker Prize (2021), la storia del Sudafrica torna protagonista anche in questo romanzo. La segregazione razziale e le diseguaglianze sono come ferite aperte di un doloroso passato recente. Lo si avverte pagina dopo pagina e in quella apparentemente trascurabile nota a margine del testo, che racchiude molto più dell’intento cautelativo che ha spinto l’autore a raccomandarsi di come alcuni termini – “meticcio” e “bolscimano”, nella traduzione di Silvia Piraccini - vadano intesi nelle pagine del romanzo. Parole che seppure «dense delle tensioni della storia sudafricana», sono qui riscattate dalla loro antica valenza spregiativa e razzista.
Nel romanzo di Galgut, Adam si sente l’anima autentica di questo paese, eppure ha fallito e quella fuga dalla città non sembra trarlo in salvo. All’improvviso, la monotonia della sua nuova vita si infrange: basta l’incontro casuale con un vecchio compagno di scuola, Canning, un uomo inadatto e goffo, destinato al fallimento se non fosse stato per l’enorme fortuna ereditata dal padre, anaffettivo e crudele. Di Canning Adam non conserva alcun ricordo dai tempi della scuola: si sforza di pensarci, ma alla fine decide di fingere e accettare la sua generosa ospitalità e amicizia.
Quando Canning gli parla della loro vecchia amicizia, lui quasi ci crede. Sulle prime si era sentito un imbroglione, un impostore. Ma ormai si è quasi convinto di avere con lui un legame che risale ai tempi dell’infanzia. Gli par quasi di avere un ricordo di Canning ai tempi della scuola e con l’andar del tempo è difficile stabilire se questa mezza impressione confusa sia un ricordo o un’invenzione.
Canning vive poco distante da lui, in una riserva di caccia fatta costruire dal padre: un «vecchio sogno coloniale di raffinatezza esclusiva», in cui la natura selvaggia è stata piegata al capriccio dell’uomo bianco e predatore. «Gondwana», come il supercontinente formatosi circa seicento milioni di anni fa: è così che il padre di Canning decise di chiamare questo posto dalla bellezza primordiale.
Ma a cambiare il corso degli eventi, è soprattutto l’incontro con la giovane moglie nera di Canning, Bimba, una donna magnetica e irraggiungibile, «una graziosa bambolina vacua e frivola», per cui Adam perde la testa, accecato da un desiderio sfrenato.
Lui vuole Bimba: averla e tenersela. La vuole con una smania dolorosa, tormentata, che gli ribolle dentro (…) non è amore; è qualcos’altro. In certi momenti sembra più simile all’odio, forse – o a una qualche forma di narcisismo sfrenato.
Bimba è spietata quanto bella. Arrivista e assettata di ricchezza ha lottato per quel privilegio ostentato con superbia. Qualunque scelta nella sua vita è fatta per convenienza e freddo calcolo. La verità è spesso amara e Bimba non usa mezzi termini con Adam: «Puoi tenertela la tua debolezza di uomo bianco. Tu non sei mai stato disperato, nemmeno per un giorno della tua vita». Il suo privilegio di essere nato bianco, infatti, è intatto anche quando sembra aver toccato il fondo, mentre lontano dalla città “gioca” a fare il poeta squattrinato e senza prospettive.
Inganno, corruzione, desiderio di sopraffazione sembrano gli unici punti di contatto in questo universo di personaggi apparentemente distanti tra loro e così simili negli istinti più reconditi. La bellezza primigenia della natura, con le sue leggi spietate e giuste al contempo, è il rovescio di un’umanità squallida. La vita stessa, vista da vicino, appare solo come «un susseguirsi di dolore e potere, ma basta che passi un po’ di tempo e niente ha più importanza».
Il romanzo si avviluppa fino alla fine in un intrigante gioco di destini incrociati, in cui la voce narrante tiene viva l’attenzione del lettore quasi dovesse convergere verso una svolta improvvisa, che non arriva mai. È forse Adam il vero impostore del titolo? Nessun vero colpo di scena rivela l’enigma. La soluzione arriva come una rassegnata verità. Di impostore non ce n’è uno solo. Adam, Bimba, Canning: forse lo sono tutti, a modo proprio. A voi dirlo.
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