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L'arte di legare le persone di Paolo Milone

Il corpo dell’altro non è che una linea spezzata nel bozzetto di Egon Schiele che si presta a copertina del libro d’esordio di Paolo Milone: due mani stringono con forza il vuoto, come se tra presenza e assenza ci fosse un dialogo, una danza disperata e bellissima.

Ed è proprio dalla poetica del pittore austriaco, messo in primo piano non a caso, che possiamo rubare la chiave di lettura del libro, capire in cosa e come ci addentreremo. L’anatomia apparentemente impossibile dei quadri di Schiele sottintende una lotta interiore che si riflette sul corpo, l’aggressività spigolosa dei movimenti si contrappone ai vuoti - lasciati lì, come le cose abbandonate, dimenticate, come le mancanze che avvertiamo nel profondo e a cui non sappiamo dare un nome.

L’arte di legare le persone parla delle voragini che ci abitano, di ciò che in noi e negli altri è frammentato, della lotta quotidiana con la follia. E lo fa attraverso le immagini del Reparto 77, un microcosmo nel cuore di Genova a cui dà voce lo stesso autore, psichiatra da quarant’anni. La sua vita e la finzione letteraria si mescolano fino a confondersi, in un romanzo che esce dalla metafora, dove legare le persone significa effettivamente trovarsi a doverle legarle al letto di un ospedale - ma anche «legare le persone a te, legare le persone alla realtà, legare le persone a sé stesse».

Legare le persone è un’arte e le mani esperte di Milone lo sanno fare così bene che, nel leggerlo, anche noi ci leghiamo a lui - e a Chiara, Lucrezia, Emilio, Filippo, Giulia, Marcello e a tutti gli altri pazienti e colleghi che si muovono tra le pagine del libro.

Inizialmente capita di trovare in loro qualcosa di noi, accade quasi distrattamente, con la sorpresa di chi si sente distante da un reparto di psichiatria; poi, insieme al procedere delle parole, cambiamo anche noi - ed è lì dentro, in quelle vite altrui, che iniziamo a cercarci. Forse perché nel vuoto c’è il potere rigenerativo della rinascita, o più semplicemente perché follia è un concetto insufficiente; è difficile per chiunque avere la consapevolezza totale di esistere: «ognuno vive nella nebbia più o meno fitta», c’è solo da «scegliere il proprio posto sul pendio e tirare su casa».

Ci leghiamo anche a Genova, la protagonista non dichiarata di questo testo. Ma quanto è bella di notte - e lo sai anche se non l’hai mai vista: in via Caffaro ti hanno offerto una tazza di tè in una ceramica olandese, hai abbassato le spalle e la testa nel tentativo di salire per le scale strette, ripide, con i gradini ognuno di un’altezza diversa. L’hai maledetta quella città in discesa, piena di rampe e muraglioni, finché non ti è capitata una finestra davanti al cielo. Davanti al mare. E quando, alle tre di notte, col camice che svolazza e gli zoccoli che fanno clak clak, hai inseguito Piero per il centro deserto, anche tu hai pensato «ci si potesse fermare…».

Milone, nonostante scriva che «la poesia non frequenta la Psichiatria ma si ferma sulla soglia», con il suo esordio letterario ha scelto una forma di prosa lirica, inusuale, composta da ritratti fulminei e corpo a corpo con le parole. La narrazione unisce la vita degli altri ai suoi pensieri, quasi in forma di diario, appunti a un sé futuro. E in questi quarant’anni messi su carta c’è tutta la fragilità, la contraddizione, la superbia, la fallibilità, l’esperienza e la passione di un uomo in quanto tale - e di una vita spesa così, a «guardare l’abisso con gli occhi degli altri». E a desiderarlo, forse, almeno un po’.

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Paolo Milone, psichiatra, è nato a Genova nel 1954. Ha lavorato in un Centro Salute Mentale e poi in un reparto ospedaliero di Psichiatria d'urgenza. Nel gennaio 2021 pubblica il suo primo libro: L'arte di legare le persone (Einaudi).

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