Le donne come mia madre, che venivano dalle campagne, da paesi dimenticati e da una miseria ostentata come un certificato di garanzia, tutti gli esseri femminili della mia famiglia materna hanno disprezzato l'amore prima di qualunque altro sentimento, la gentilezza più di qualunque altra virtù, le altre donne assai più di qualsiasi maschio
Antonio Franchini scrive indossando guantoni da pugile.
Leggendo l’incipit del suo nuovo libro vien fatto di pensare, capovolgendola, all’immagine che un cronista modulò sulle movenze aggraziate e micidiali di Muhammad Alì: danza come una farfalla, punge come un’ape. E Franchini parte nella sua ricognizione à rebours sulla figura materna con un uno-due di quelli che – se vanno a vuoto – rischiano di lasciare esposta la mascella del pugile che ha tentato l’affondo.
“Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza”, esordisce con andatura zigzagante e frenetica da ape operaia.
Ma il montante si limita a sfiorare il bersaglio con levità di coleottero perché, sin da quelle prime righe, s’intuisce che l’incontro che si consumerà sul ring di “Il fuoco che ti porti dentro” è di quelli che finiscono ai punti e non per KO.
Vita e morte di Angela, donna dal carattere impossibile. Una donna che incarna in maniera emblematica tutti gli orrori dell’Italia, nessuno escluso: «il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore…». Questa donna era la madre dell’autore.
E qui c’è il primo trucco del sapiente Franchini: tenerci sulla corda senza mai dare l’impressione di sapere chi si laureerà campione, alla fine: se lui, l’editor stimato e scrittore raffinato, oppure sua madre Angela, donna livorosa e ostinatamente aggrappata ai pregiudizi come il naufrago si aggrappa ad una boa.
Franchini racconta la vita di questa donna dal carattere impossibile, e noi sentiamo l’asprezza del nodo che una vita intera ha contribuito a stringere fino a renderlo inestricabile.
Pagina dopo pagina, parola dopo parola, ingiuria dopo ingiuria, il rapporto più ancestrale e meno mediato dalla parola che ci sia, quello fra una madre e suo figlio, si rivela essere una partita giocata sul filo delle negazioni, delle aspettative reciproche destinate a essere sempre frustrate.
Il retaggio di Angela è quello di una donna che ha voluto soprattutto “essere personaggio e non autore”.
Sarebbe facile (e forse disonesto) cercare una sponda nell’arte maieutica del figlio, editor che dei personaggi partoriti dai suoi autori ha scelto di essere levatrice.
Ma quella scritta da Franchini non è la biografia di sua madre, quanto piuttosto il calco in negativo di quella vita, un calco sul quale l’autore ha modellato la forma della propria cultura – cultura come esperienza del tempo e dell’altro da sé - cercando di differenziarsi il più possibile dalla matrice.
Quella che leggiamo è dunque un’autobiografia agita via negationis, perché la lingua con cui lo scrittore può raccontare sua madre con tutte le sue idiosincrasie e le sue meschinità, da quegli stessi limiti è direttamente scaturita, seppure per reazione. Il fuoco che ti porti dentro è un gran bel titolo, ma il libro (pubblicato da Marsilio) avrebbe potuto benissimo intitolarsi anche Storia della mia lingua.
E Franchini è abile, abilissimo ad assimilare tic linguistici, idiotismi, scarti e asimmetrie di una koiné che mescola ingiurie da vascio a motti oraziani, un registro che alterna giaculatorie e luoghi comuni elevati a motto sapienziale, restituendo sulla pagina questa materia incandescente con gusto aforistico e forza evocativa, così che il ritratto di Angela che prende forma lungo le 220 pagine del libro finisce per somigliare ad un modellato a tutto tondo in forma di voce.
Noi sentiamo questa donna, ne udiamo i giudizi e i pregiudizi, impariamo a conoscerne le piccolezze, le avarizie, la profonda disistima nelle possibilità dell’umano, ma sulla cortina offerta da quelle esalazioni solforose e mefitiche possiamo specchiare la nostra coscienza e scoprirci migliori di lei.
Per questo, paradossalmente, prima della fine del libro ad Angela saremo grati.
Non potremo fare a meno di provare per lei la stessa simpatia avvertita dagli ospiti che il figlio invita a cena a casa sua e che, invariabilmente, stupiscono di come una donna descritta a tinte livide dal figlio possa essere, quando conosciuta di persona, tanto simpatica.
Perché Angela scoperchia il suo capiente vaso di Pandora a esclusivo beneficio dei parenti più stretti, mentre con il resto del mondo può permettersi il lusso di tramutare gli isotopi di quell’acqua pesante in un vinello sincero, di quelli che mettono allegria per la loro ignoranza.
È giusto tentare di uccidere i padri (e del resto Franchini al parricidio simbolico gira attorno da tempo), ma dai match combattuti con le madri si esce spesso con le ossa rotte. Antonio Franchini riesce nell’impresa di non nascondere nulla di quanto gli ha reso insopportabile sua madre e al contempo redimerla delle sue colpe, mostrandola a noi per ciò che è stata, la figlia perfetta di una storia imperfetta.
Certo, far pace coi morti è più facile: non c’è contraddittorio e del resto è lo stesso autore a riconoscerlo, quando scrive che “si lotta contro i vivi, e noi da vivi ci siamo battuti a lungo”, prima di confessare che scrivere questo libro non è stato, per lui, liberatorio.
Ma a guardare da vicino, chiusa l’ultima pagina, si ha l’impressione che nell’abbraccio in cui il pugile stringe l’ombra del suo avversario non ci sia tanto la voglia di far male o di difendersi, quanto quella di accorciare una distanza tenuta troppo a lungo. Angela riposa. Per una volta, riposa in pace. Il fuoco che portava dentro non ha lasciato solo ceneri, dietro di sé.
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