Tutta la mia rabbia era sbiadita insieme allo sconforto. Il mio viaggio era diventato un ricordo leggero, una storia terribile ma antica. Stringendo i fogli nella zampa, avvertii il loro peso, era cambiato per sempre. Avevo intrappolato la mia prigione nella carta.
L’esigenza di raccontare una storia, la grande spinta a farlo che si incontra nei libri d’esordio. Una sollecitazione che travolge anche il lettore pagina dopo pagina.
Chi sono quei ragazzini che giocano, litigano o fanno stupidaggini infantili? Chi è quella mamma vedova che oltre a tenerli a bada deve anche crescerli e mantenerli? Stiamo osservando la quotidianità in una famiglia povera che non può permettersi di pagare il dottore se qualcuno si ammala e deve fare riferimento agli usurai per tirare avanti? Sostanzialmente sì, perché anche se la famiglia è formata da faine, la casa è una tana e lo strozzino è una volpe, i comportamenti, le paure, le gioie e i dolori sono umani. Perché il protagonista, Archy (uno dei figli venduto dalla madre per una gallina e mezza), e il suo padrone-aguzzino-mentore volpe si sentono umani nel profondo.
Zannoni utilizza una chiave narrativa comune alla tradizione: l’antropomorfizzazione dell’animale che racconta non tanto una storia di etologia romanzata quanto una favola umana, alla Esopo o La Fontaine, piena zeppa di “morali”.
La storia di un animale, di una faina che scopre il mondo, le sue verità e le sue menzogne. Come fosse un personaggio strappato a Camus, e al tempo stesso a un film della Pixar. Un esordio sorprendente.
C’è chi ha scelto una chiave ironica per “far parlare” gli animali e chi invece ha preferito un taglio drammatico, a tratti spietato e quasi catartico, come Zannoni. Sangue, violenza, ferocia sono normali componenti di una esistenza bestiale, che non prevede un’etica umana. Ma quando questa si insinua diventa dirompente. Man mano Archy acquista coscienza, man mano Solomon, il suo padrone, mostra un senso del divino e una consapevolezza della morte che certo non sono nella natura degli animali.
Attorno a loro solo istinto di sopravvivenza, paura, ignoranza, impulsività pura. Pochi gli incroci con il mondo dell’uomo, perché i protagonisti di Zannoni non guardano tanto in questa direzione, non commentano i gesti o le attività degli esseri umani - apprezzando e impossessandosi se possibile soprattutto dei loro manufatti -, ma si focalizzano sulla comunità animale, raccontandola dall’interno. Dell’uomo ambiscono ad acquisire una competenza fondamentale, vivifica e straordinaria: la scrittura.
Vincitore del Premio Campiello, del Bagutta Opera prima e del Premio Salerno Libro d’Europa, Zannoni ha esordito al meglio. Si intravedono tra le righe della sua narrazione alcune ingenuità, che certamente svaniranno nelle sue prossime opere. Per contro, leggiamo anche quell’entusiasmo, quella voglia di narrare che si trova solo negli esordi. L’esigenza di raccontare una storia originale e un po’ fuori dagli schemi e la grande spinta a farlo: una sollecitazione che travolge anche il lettore pagina dopo pagina.
Un piccolo neo che in questi giorni è stato sottolineato anche dalla rivista Shalom, magazine online della comunità ebraica di Roma: chiaro il riferimento Shakespeariano a Shylock, chiara la necessità di caratterizzare in modo deciso un personaggio, ma perché chiamare ancora una volta l’avido e spietato strozzino – che nel corso della storia rivela una certa spiritualità ma rimane comunque crudele, feroce, inesorabile - con un connotatissimo cognome ebraico come Solomon? Non sarebbe opportuno uscire finalmente da questi schemi che continuano a portare avanti una immagine tanto obsoleta quanto negativa dell’ebraismo?
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