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Dipendenza di Tove Ditlevsen

In soggiorno ogni cosa è verde – pareti, tappeti, tende – e io sono sempre lì, come in una fotografia

Inizia così l’ultimo libro della trilogia di Copenaghen, la confessione finale di Tove Ditlevsen che ci offre un racconto sincero, schietto e per nulla edulcorato della fase adulta della sua vita. L’autrice danese, considerata la pioniera dell’auto fiction, capostipite di scrittrici del calibro di Ferrante ed Ernaux, si conferma una narratrice generosa, impavida, immune a ogni tipo di auto censura. E per questo incanta.

Ed è significativo che Tove inizi con un’immagine nitida, verde, a suggerire una speranza che ha sempre rincorso, ma che non gli è mai davvero appartenuta. Lei si immagina immobile, in un soggiorno, come un oggetto impolverato dimenticato in un cassetto, in spazi claustrofobici e gabbie che lei stessa ha contribuito a creare. Sin da piccola, dove tentava di farsi spazio in un’infanzia descritta come una bara stretta e sottile, per poi approdare ai tentavi di fuga della gioventù, tra lavori occasionali e slanci politici, dove ogni escapismo però sembrava portarla sempre, inevitabilmente, al punto di partenza.

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In Dipendenza (Fazi), Tove è adulta, e mentre è impegnata a cercare una normalità che sembra aver inseguito per tutta la vita, si destreggia in scelte che appaiono invece assurde. Matrimoni superficiali, relazioni effimere, dipendenze appunto che la paralizzano anziché farla correre, con un’unica sola costante; una compagna di vita, alleata fidata e nemica sfidante, la scrittura.

Per me, la scrittura è un po’ come nell’infanzia: una cosa segreta e proibita, piena di vergogna, da fare di nascosto in un angolino, quando nessuno vede.

Ed è in queste contraddizioni che la voce della Ditlevsen risulta speciale, quando si abbandona all’incoerenza, suscitando quasi un barlume di irritazione; quando si vergogna dell’unica salvezza che la sta tenendo in vita.

Tove si sposa, poi si innamora di un altro, in seguito divorzia, si risposa e poi forse si pente di nuovo; e il loop si ripete all’infinito perché lei sembra non imparare mai, o meglio, sembra quasi nutrirsi della sua finta inettitudine, sollevata dalla totale incapacità di trovare un equilibrio. La madre la ammonisce dicendo che è lei a essere complicata ed è la vita a adeguarsi al suo costante dimenarsi alla ricerca del nulla. Proprio lei che Tove ha sempre cercato di emulare, di sentire vicino, copiandone i gesti, la cadenza della voce e la risposta pronta, compensando con quella ammirazione univoca una totale carenza d’affetto. Un sentimento che Tove ha provato per chiunque abbia manifestato il minimo, fugace interesse verso di lei, soprassedendo alle spie d’allarme che vaticinavano i dolori di cui sarebbe stata puntualmente vittima.

Questa tendenza quasi auto distruttiva culmina nella relazione con Carl. Un dottore dalle mani piccole, affusolate, scattanti. Uno psicopatico che si diletta a iniettarle petidina e altre sostanze ogni volta che la donna manifesta o finge un dolore. Tove è passiva, immobile, si aggrappa a una siringa perché unica fonte in grado di garantirle quella realtà alternativa che non ha mai agguantato, sebbene effimera, sebbene falsa.

Penso con inquietudine al mio futuro, perché in quelle stanze verdi c’era una sorta di senso di sicurezza

Giorni a letto, prigioniera di una dipendenza crudele che la illude con promesse inesistenti. Tove crede che la droga la aiuti a scrivere, che la sua mente vada nutrita. La verità è che la scrittura le appartiene naturalmente, tanto che si potrebbe pensare nelle sue vene scorra l’inchiostro. La Ditlevsen crea un mondo già esistente, ma lo rende suo facendo vivere gli oggetti che vi abitano, occupando spazi e stanze che finiscono sempre per inghiottirla, assomigliandole. La sua scrittura le permette di erigere una cortina compatta tra sé stessa e la realtà, trincerandosi dietro un fumo tuttavia facilmente trapassabile. Insoddisfatta, irrequieta, a cavallo tra malinconia e ironia, sembra celebrare le piccole cose perché quelle grandi tendono sempre a deluderla. E la Copenaghen del quartiere popolare di Infanzia che forse più si addiceva alla sua meticolosa attenzione verso il basso, si tramuta qui in locali del centro, circoli di artisti, e ville di campagna, destinata poi, pagina dopo pagina a scomparire, legittimando la sua fatuità, sostituita dai muri solidi e concreti che si chiudono intorno a Tove. La donna sembra volere per sé stessa l’oscurità e il silenzio, rivelando però nello stesso tempo l’elevazione del suo spirito, una voce di scrittrice che al contrario è forte, rumorosa, stimolante.

E mi è sempre più chiaro che l’unica attività in cui sono davvero brava – l’unica che mi appassiona – è quella di formare proposizioni, comporre sintagmi o scrivere modeste quartine

Questo afferma Tove in una rara e lucida dichiarazione d’amore verso la scrittura.

C’è una parola in danese, Hygge, un concetto che incarna una sensazione di serenità, sicurezza e accoglienza, uno stile di vita improntato al benessere. Sensazioni che Tove Ditlevsen ha rincorso invano per tutta la vita e che però, mi piace pensare, abbia trovato ogni qual volta, seduta da sola nella sua camera, abbia premuto anche solo un tasto della sua macchina da scrivere.  

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Infanzia

Di Tove Ditlevsen | Fazi, 2022

Gioventù

Di Tove Ditlevsen | Fazi, 2022

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