La giovinezza è provvisoria, fragile e incostante. È fatta per lasciarsela alle spalle, non ha altro scopo che questo.
Alla fine del volume precedente, Infanzia, avevamo lasciato Tove, quattordicenne, alle prese con l’incertezza del futuro. Non potendo proseguire gli studi a causa delle condizioni economiche della famiglia, si apprestava a cercare lavoro.
Nel secondo capitolo della trilogia di Copenaghen Tove ci racconta la sua crescita, la ricerca dell'indipendenza economica, la voglia di affrancarsi dalla famiglia, la scoperta del sesso maschile.
La voce narrante è immediatamente riconoscibile: ritroviamo la prospettiva spaesata della ragazza nell’approcciarsi al mondo, la fatica di vivere, il dolore per le umiliazioni e le ingiustizie subite e al contempo la determinazione, la voglia di qualcosa di più; in particolare, Tove non ha smarrito il suo sogno: scrivere.
Dopo "Infanzia", il secondo capitolo della trilogia di Copenaghen, grande classico della letteratura danese oggi riscoperto e acclamato a livello internazionale. "Gioventù" è il ritratto straordinariamente onesto e coinvolgente di una fase cruciale della vita, e Tove Ditlevsen, ancora una volta, ha un grande merito: nel raccontarci di sé ci rivela qualcosa su tutti noi.
«Devi fare tutto quello che dico io, altrimenti ti sparo»: così le dice il piccolo figlio dei suoi primi datori di lavoro, una ricca famiglia che necessita di una domestica: resiste solo un giorno. Successivamente colleziona una serie di esperienze lavorative più o meno fallimentari – donna delle pulizie, impiegata, segretaria presso l’ufficio statale del grano e assistente in uno studio legale – ma nulla di tutto ciò ha grande importanza per Tove, che continua a coltivare segretamente il sogno di diventare scrittrice. Cerca ispirazione per le sue poesie, ci lavora di nascosto e, seppur all’interno del suo piccolo mondo, prova a crearsi dei contatti che le aprano una breccia in quel circolo di intellettuali di cui tanto agogna far parte.
Nel mentre, continua a doversi destreggiare con la crudeltà e l’invadenza della madre, che la controlla, comanda, sminuisce, tentando di ostacolare i suoi tentativi di indipendenza ed emancipazione e di indirizzarla verso una vita simile alla sua.
Sono stufa marcia della mia famiglia. È come se me la ritrovassi in mezzo ai piedi ogni volta che cerco di muovermi in libertà. Forse riuscirò a svincolarmi solo quando mi sposerò e a mia volta metterò su famiglia
Seppur ancora ragazzina, Tove vuole scappare da un destino scritto, dove il passato è uguale al futuro, sempre dalle basse aspettative; come Virginia Woolf, vorrebbe “una stanza tutta per sé”:
[…] Vorrei tanto avere un posto dove esercitarmi a comporre poesie vere. Mi piacerebbe una stanza con quattro mura e una porta chiusa. Una stanza con un letto, un tavolino e una sedia, una macchina per scrivere – oppure un blocco e una matita – nulla più. Anzi, sì: una porta da poter chiudere a chiave. Cose che non potrò avere finché non compirò diciott’anni e sarò andata a vivere da sola
E alla fine la ottiene, una stanza tutta sua: anche se è inizialmente una camera fredda, decadente e, soprattutto, di proprietà di una fervente nazista, solita ascoltare i discorsi di Hitler con grande partecipazione. L’Europa è infatti sull’orlo della Seconda Guerra Mondiale, ma lo spettro del nazismo rimane sullo sfondo, preoccupa Tove solo nella misura in cui può intralciare le sue ambizioni letterarie.
È una strada a ostacoli, quella della protagonista; per ogni passo che compie verso la libertà, il futuro, la delusione e lo spaesamento sono lì ad attenderla.
Tove cerca disperatamente di lasciarsi alle spalle la sua infanzia, sua madre, le amiche del quartiere, i lavori che è costretta a svolgere, le relazioni amorose che non hanno nulla che ricordi vagamente l’amore: fugge, ma non sa dove andare. Così arranca, segue la sua passione per le parole e va alla ricerca di qualcuno che la salvi, un uomo benestante forse, più grande di lei, qualcuno che la aiuti a realizzare i suoi sogni, a cui affidarsi. Come sappiamo dalla sua biografia, anche questa ricerca si rivelerà tormentata: si sposerà e divorzierà per quattro volte.
Tove è determinata, ambiziosa, ma non ha gentilezza per sé stessa; del resto, nessuno ne ha quasi mai avuta per lei. Vive così delle attenzioni altrui, che pur essendo spesso poca cosa, le appaiono come un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi. La vergogna della sua infanzia la perseguita, l’umiliazione non la abbandona mai, riaffiora a fasi alterne e lei non riesce mai a contrastarla davvero: quando l’uomo al quale si è affidata, il suo redattore, le fa un appunto sulla pronuncia del termine chauffeur, non pensa nemmeno per un momento che possa essere stato indelicato, incolpa sé stessa e la sua intera esistenza:
«Attenta a pronunciare sciofför, altrimenti ti dicono che sei troppo copenaghese». Questo suo appunto mi offende e mi riempie di rabbia verso il modo in cui sono stata cresciuta, verso la mia ignoranza, il mio danese, la mia totale mancanza d’istruzione e cultura, termini dei quali conosco a malapena il significato
Come Infanzia, anche Gioventù è un pugno nello stomaco: il dolore che abita le pagine è spiazzante e al contempo narrato passivamente, percepito come una serie di fatti consueti della vita; la protagonista racconta i propri sentimenti in modo accurato, ma resta in superficie: riconosce somiglianze tra le sofferenze della sua esistenza, ma non sembra cogliere cause e conseguenze. Non ci sono vere e proprie vie d’uscita, nel mondo di Tove: è alla costante ricerca di una pace che non trova perché, prima di tutto, non è in pace con sé stessa. Spesso, però, da chi non è in pace con sé stesso nascono le storie migliori: Tove Ditlevsen si affermerà come scrittrice e poetessa e Gioventù, che leggiamo oggi ad anni di distanza, è una perla rara e imperdibile.
Una sera, rincasando, trovo sul tavolino un grosso pacchetto e lo lacero con mani tremanti. Il mio libro! Lo prendo in mano e sento una felicità solenne, che non somiglia a nessuna emozione mai provata prima. “Tove Ditlevsen. Anima di fanciulla”. Non si può più ritirare. È irrevocabile. Il libro esisterà per sempre, indipendentemente dalla piega che prenderà il mio destino. […] Aspetterò fino a domani, per mostrarlo a Viggo F. Stasera voglio stare sola con il libro, perché non c’è nessuno che capisca davvero che miracolo sia, per me
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