C’è un termine in inglese, longing, che ho sempre trovato difficile tradurre con un’unica parola. Uno struggimento verso un qualcosa; un aspirare malinconico a una condizione forse - e consapevolmente - del tutto irrealizzabile. Day di Michael Cunningham (La nave di Teseo) parla un po’ di questo. Di come sia al contempo consolante e pericoloso rifugiarsi in una mente avida che partorisce di continuo immagini e idilli che trovano compimento proprio nel loro astrattismo. Una condizione che legittima involontariamente l’immobilità.
5 aprile 2019. In un’accogliente casa in mattoni di Brooklyn, la patina di felicità domestica di Dan e Isabel comincia a incrinarsi. Marito e moglie si stanno lentamente allontanando, attratti entrambi, a quanto pare, da Robbie, il fratello minore di Isabel.
Isabel, la protagonista del romanzo - probabilmente un omaggio all’Isabel Archer di Ritratto di signora di cui condivide fascino, un pizzico di egoismo e quell’innato slancio verso l’indipendenza – è alla perenne ricerca di una svolta. Infelice nel suo matrimonio con Dan, ex rocker che ritenta la via del successo, e madre di due figli distanti e irriverenti, sembra avere una relazione di amore platonico con la vita. La studentessa è intelligente, ma non si applica, verrebbe da dire. Proprio lei che, quando non lavora come editor fotografica, trova pace seduta sulle scale di casa, sul gradino di mezzo, ostinata nel non voler né scendere, né salire.
Non sa bene quand’è che ha smesso di essere la protagonista della propria fiaba ed è diventata, invece, la sorella avida e incarognita, la scorbutica gemella di se stessa, quella a cui è stato concesso tutto e che tuttavia continua a brontolare: Non mi basta
Isabel ha un’unica certezza in mezzo al caos della sua insoddisfazione, l’amore che prova per il fratello Robbie. Ribelle, affascinante e spiantato, l’uomo cristallizza le attenzioni anche di Dan, ricoprendo quasi il ruolo di collante della coppia. Un’arma per districare quel groviglio che sono diventati insieme marito e moglie. Da una parte le aspettative scriteriate di lui, dall’altra i sogni a occhi aperti di lei. Un equilibrio fallace che viene interrotto quando Robbie si vede costretto a cambiare casa, abbandonando l’attico al secondo piano.
Michael Cunningham ci porta nella vita di questi personaggi tutt’altro che straordinari, ma tragicamente umani. O meglio, ci racconta un singolo giorno delle loro esistenze - il 5 aprile - in 3 anni diversi, ritornando a una struttura a trittico tanto cara a chi, come me, ha amato Le ore con cui vinse il Premio Pulitzer nel 1999.
Esplicito anche qui è l’omaggio a Virginia Woolf e a Gita al faro, con il racconto di tre momenti cardine, pur nella loro iperbolica normalità. Un ritratto elegante fatto da tanti dialoghi e poca azione. A scuotere il ripetersi ciclico in Day è lo scoppio della pandemia che fa da specchio alla guerra nel romanzo della Woolf.
Quello che accomuna queste tre giornate, oltre al cadenzare lento e piatto dei minuti, è il sognare a occhi aperti. Incarnazioni di uno spleen malinconico, Isabel, Dan e Robbie fuggono dalla loro quotidianità inappagante senza però proporre soluzioni concrete, ma avanzando ipotesi irrealizzabili, o perché appartenenti a un passato irripetibile, o a causa della loro impossibilità.
«Le melodie ascoltate sono dolci, ma quelle inascoltate sono più dolci» per citare John Keats con una frase emblema del potere dell’immaginazione sulla realtà. E immaginaria è anche la figura di Wolfe, un profilo Instagram inventato da Robbie e portato avanti da Isabel. Un alter ego condiviso. Un uomo realizzato che posta paesaggi mozzafiato e si fa portavoce di una vita da cartolina. L’ennesima fuga dalla realtà.
Michael Cunningham ancora una volta ascolta con generosità il bisogno di sviscerare i personaggi dei suoi romanzi. Insoddisfatti, contraddittori, profondamente reali. Ne analizza ogni minuzia, gesto e parola, garantendo la messa in scena di un’interiorità che difficilmente lascia immuni all’immedesimazione. E il lettore infatti tanto più prende le distanze da comportamenti e riflessioni che sanno di ingratitudine, quanto più ci si rivede, sposandone il coraggio. Riconoscendo quel tentativo di scuotere il ripetersi monotono dei giorni, invertendo la rotta.
[…] aveva sperato di offrirgli un punteruolo da ghiaccio abbastanza affilato da trafiggere la pelle dell’usuale, sforacchiare l’ordinata progressione dei giorni
E forse ciò che lascia questo romanzo è il tentativo di abbandonare le stanze dell’indifferenza, il gradino di mezzo sulla scala. Come barche controcorrente, evitando però di essere risospinti senza posa nel passato.
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